Economia
Usa-Cina: cosa ancora li divide. E Trump prepara la guerra all'Ue
Il G20 si avvicina, Trump prepara l’intesa con Cina ma mette l’Europa nel mirino
Il G20 di Osaka si avvicina e mentre i leader mondiali si preparono ad arrivare in Giappone, gli occhi dei mercati sono puntati sulla ripresa dei colloqui commerciali tra Usa e Cina. Il dialogo dovrebbe, ci si augura, portare ad un accordo in grado di evitare quanto meno l’applicazione di dazi del 10% sui restanti 300 miliardi di esportazioni cinesi verso gli Usa la cui introduzione è stata minacciata da Trump se Pechino non cesserà di tentare di sottrarsi a regole quali l’applicazione di una effettiva tutela del diritto d’autore o l’apertura dell’economia cinese al mercato, con un calo del peso su di essa delle aziende a partecipazione statale. In effetti, l’accordo sarebbe ormai stato trovato sul 90% dei temi oggetto di discussione, secondo quanto annunciato dal Segretario al Tesoro Usa, Steven Mnuchin.
Munchin si è anche detto ottimista sulla possibilità che sul restante 10% si possano fare passi in avanti grazie all’incontro tra Donald Trump e Xi Jinping ai margini del G20. Più prudenti sembrano i mercati, dopo 18 mesi di scontri verbali e a suon di dazi e controdazi.
Un sondaggio di Bank of America Merrill Lynch ha rivelato che due terzi degli investitori non si attende la sigla di un accordo nel fine settimana, semmai il “congelamento” di ogni ulteriore dazio americano come segno di buona volontà nel cercare di arrivare finalmente a mettere la parola fine ad uno stato di guerra commerciale strisciante che ha già avuto i primi effetti in termini riallocativi.
Nel primo trimestre del 2019 le importazioni negli Usa dalla Cina sono infatti calate di 15,8 miliardi di dollari, con qualche ulteriore calo per le importazioni da Hong Kong, Singapore, Malesia e Indonesia. In compenso sono aumentate di quasi 1 miliardo le importazioni dal Giappone, di 1,1 miliardi quelle dall’India, altrettanto quelle dal Vietnam, di 2,2 miliardi sia quelle da Taiwan sia quelle dalla Corea del Sud.
Non solo: nel complesso se non si dovesse raggiungere alcun accordo tra Usa e Cina, il commercio mondiale potrebbe subire un calo di circa 1.200 miliardi di dollari. Le tensioni sulle due sponde del Pacifico finora hanno impattato soprattutto sulle aziende che fanno affari in tale area, con contraccolpi rappresentati dal calo degli investimenti e delle importazioni rispetto allo scorso anno.
In compenso le incertezze legali che ancora circondano le misure volute da Trump hanno portato aziende high-tech come Google, che dopo il bando nei confronti di Huawei avevano congelato i rapporti col gruppo cinese (che da parte sua starebbe trattando con la portoghese Aptoide per un’alternativa al Google Play Store), a cercare modi legali per aggirare le sanzioni di Trump, ad esempio spostando la produzione in altri paesi asiatici come il Viatnam o Taiwan e non subire dazi del 25% nel momento in cui fanno entrare tali merci negli Usa. Una soluzione che ha già fatto innervosire Trump, che ha notato come il Vietnam abbia trattato gli Stati Uniti “anche peggio della Cina”.
Altro punto sul tappeto, un accordo di libero scambio in Asia potrebbe essere finalizzato entro l’anno, anche se non tutti i 16 paesi che avevano segnalato di volervi aderire potrebbero alla fine siglare l’accodo. Ma mentre il mondo ha gli occhi puntati su Usa ed Asia, Trump potrebbe aver già pronto un nuovo bersaglio. “L’Europa è peggio della Cina” aveva già commentato il presidente statunitense lo scorso anno e da allora l’impressione non sembra essere cambiata, anzi.
Prossime vittime designate di Trump potrebbe essere la Germania con la sua industria automobilistica (Daimler e Volkswagen in testa, complice anche la pesante eredità del dieselgate) e aerospaziale (Airbus, rivale diretta dell’americana Boeing, è da anni accusata di ricevere aiuti pubblici). Ma anche il settore agroalimentare europeo, che Trump giudica superprotetto, potrebbe subire contraccolpi, che rischiano di essere particolarmente dannosi per prodotti di punta del “made in Italy”come il Prosecco, per il quale il mercato Usa vale 70 milioni di bottiglie vendute all’anno e oltre 370 milioni di euro di fatturato. L’export negli Usa dei vini tricolori vale nel complesso 1,5 miliardi l’anno, cui vanno aggiunti almeno altri 436 miloni per l’olio d’oliva e 273 milioni per i formaggi, per un totale di quasi 2,2 miliardi.
Tutto questo sempre che “the Donald” non decida, sistemata la partita con la Cina e in attesa di valutare gli sviluppi in Medio Oriente del braccio di ferro con l’Iran, di concentrarsi sui problemi “in casa”, come quel Jerome Powell da lui scelto per presiedere la Federal Reserve che non vuole convincersi ad abbassare i tassi sul dollaro. Una manovra che Donald vorrebbe per indebolire il biglietto verde e consentire agli Usa di competere ad armi pari con paesi (Cina in primis, ma anche l’Europa specie se la Bce riaprisse i rubinetti del suo quantitative easing) che stanno già deprezzando le loro valute per sostenere le proprie esportazioni ai danni dell’America trumpiana.
Luca Spoldi