Esteri

L'Europa cerca la sua strada nella difesa, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo Trump

L’Europa è in grado di sviluppare sistemi militari di altissima qualità, ma manca ancora una visione strategica comune

di Raffaele Volpi

Tra il dire e il fare c’è di mezzo Trump

La guerra in Ucraina ha esposto un’Europa impreparata a gestire i conflitti moderni, mostrando un divario evidente tra la percezione teorica delle dinamiche militari e la loro realtà operativa. Per anni, il continente ha investito in forze specialistiche, tecnologie avanzate e operazioni mirate, immaginando guerre circoscritte e interventi chirurgici.

Tuttavia, il conflitto ucraino ha riportato sul terreno la logica di grandi dispiegamenti militari, l’uso massiccio di mezzi corazzati e artiglieria pesante, senza però rinunciare all’impiego di tecnologie avanzate come droni, sistemi di monitoraggio e comunicazioni satellitari. 

Questa doppia natura del conflitto, tradizionale e tecnologica, ha rivelato non solo i limiti strategici europei, ma anche quelli industriali. Adeguarsi a queste nuove realtà significa infatti ripensare la produzione di mezzi militari: quantità e qualità devono viaggiare insieme. Eppure, in Europa prevale una mentalità frammentaria, con investimenti divisi su più progetti concorrenti. Il caso dei caccia di sesta generazione è emblematico: da un lato il consorzio che include Italia, Regno Unito e Giappone, dall’altro quello che coinvolge Francia, Germania e Spagna. Due visioni che rappresentano non solo un dispendio di risorse finanziarie, ma un’occasione persa per consolidare unindustria della difesa integrata e competitiva.

A tutto ciò si aggiunge l’impatto della rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca. L’atteggiamento della sua amministrazione nei confronti della NATO rappresenta una sfida e, al tempo stesso, una potenziale opportunità per l’Europa. Durante il suo primo mandato, Trump ha insistito affinché gli alleati europei aumentassero i bilanci della difesa al 2% del PIL, accusandoli di scarso impegno economico rispetto agli Stati Uniti. Questa pressione, ora rinnovata, rischia di mettere in difficoltà molti paesi europei, per cui l’obiettivo di spesa imposto appare non solo irrealistico, ma anche strategicamente inefficace.

Il modello americano, basato su una mentalità quantitativa – una grande disponibilità di uomini e mezzi – non è facilmente replicabile nel contesto europeo, dove le risorse sono più limitate e le priorità strategiche diverse. Ma è proprio qui che l’Europa può giocare la sua partita, puntando sulla qualità invece che sulla quantità.

L’Italia, ad esempio, è uno dei paesi che contribuisce maggiormente alle missioni internazionali di pace, un impegno che dimostra come il focus su interventi mirati e competenze specifiche possa avere un impatto significativo. Inoltre, il nostro Paese eccelle in settori altamente specializzati, come dimostra il recente avvio del Polo Nazionale della Subacquea, un’iniziativa che punta a valorizzare e rafforzare una competenza unica a livello globale.

LEuropa, con le sue eccellenze industriali e tecnologiche, è in grado di sviluppare sistemi militari di altissima qualità: droni avanzati, sistemi di difesa aerea, tecnologie satellitari e cyber-sicurezza, solo per citare alcuni esempi. Per cogliere queste opportunità, però, serve una visione strategica comune, che finora è mancata. La frammentazione degli investimenti in difesa non è solo una questione economica, ma anche politica. Le differenze di vedute tra i principali paesi europei spesso impediscono di definire priorità condivise, con il risultato di progetti duplicati, inefficienze e ritardi. Il rischio, in un contesto globale sempre più competitivo, è quello di perdere terreno nei confronti di attori come Cina e Stati Uniti, che possono contare su risorse ben più ampie e sistemi decisionali più centralizzati.

Un esempio concreto di dove l’Europa potrebbe concentrare i suoi sforzi è il Mediterraneo allargato. Questa regione, cruciale per gli interessi europei sia in termini di sicurezza che di risorse energetiche, richiede una presenza strategica solida e ben coordinata. Qui, l’Europa potrebbe dimostrare che una strategia basata sulla qualità – mezzi tecnologicamente avanzati, missioni specializzate e interventi mirati – è più efficace di un approccio puramente quantitativo.

La rielezione di Trump, con la sua retorica orientata a un minore coinvolgimento americano nelle dinamiche globali, potrebbe rappresentare un’opportunità per spingere l’Europa verso una maggiore autonomia strategica. Tuttavia, questo non significa necessariamente un disimpegno completo degli Stati Uniti dalla NATO, ma piuttosto un riequilibrio delle responsabilità all’interno dell’alleanza. Trump continuerà a spingere affinché i paesi europei aumentino i loro contributi finanziari, ma il rischio per l’Europa è quello di assecondare una visione che non corrisponde alle sue reali necessità.

Invece di concentrarsi esclusivamente sul raggiungimento delle cifre richieste da Washington, l’Europa dovrebbe investire in un modello di difesa che rifletta le sue peculiarità e i suoi interessi. Questo significa coordinare meglio le risorse industriali, evitare duplicazioni e rafforzare le alleanze interne. Non è solo una questione di mezzi, ma di strutture e obiettivi: una politica di difesa europea non può prescindere da una visione comune della politica estera, che al momento rimane frammentata.

Un passo avanti in questa direzione potrebbe arrivare dalla nuova Commissione Europea, che nei prossimi mesi avrà l’opportunità di promuovere una maggiore integrazione nel settore della difesa. Standardizzare i sistemi d’arma, sviluppare piattaforme industriali comuni e investire in tecnologie emergenti sono priorità non più rinviabili. Ma per farlo, serve il coraggio politico di superare le divisioni nazionali e di immaginare un’Europa capace di agire come un unico attore globale.

Fra dire e fare, dunque, c’è di mezzo non solo Trump, ma un continente che deve decidere se vuole continuare a dipendere da modelli esterni o se è pronto a definire il proprio percorso. In un mondo sempre più instabile e multipolare, la qualità delle scelte europee – non la quantità – sarà il vero fattore decisivo per garantire la sicurezza e la rilevanza del continente sul piano internazionale.