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Esteri
Nel giorno del ricordo della Shoah, la Memoria è fumo nel vento

Nella Giornata della memoria, la Memoria è fumo nel vento. Il commento

Il 27 gennaio 1945 una pattuglia dell'Armata Rossa abbatteva i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, «svelando al mondo l’inferno nascosto dietro la scritta Arbeit macht frei» e liberando i settemila prigionieri rimasti, fra i quali c’era anche Primo Levi.

Sessant’anni dopo, il 1 novembre 2005, l’assemblea generale delle Nazioni Unite designava questa data come la mondiale "Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell'Olocausto", decisione già in vigore in Italia fin dal 2000. Allo scopo di prevenire in futuro atti di genocidio, nella Risoluzione si invitavano gli Stati membri a promuovere programmi educativi idonei a tramandare la memoria dell'Olocausto alle nuove generazioni. 

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Nell’anno della prima celebrazione, il 2006, l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan aprì il suo intervento ricordando i milioni di innocenti, ebrei e membri di altre minoranze, massacrati con le modalità più atroci che si possano immaginare. “Non dobbiamo dimenticare mai quegli uomini, quelle donne, quei bimbi, o l’agonia attraverso la quale sono passati”. E concluse con una esortazione oggi più che mai attuale e tristemente disattesa: “impegniamoci a raddoppiare i nostri sforzi e il nostro impegno per prevenire il genocidio e i crimini contro l’umanità”.

Secondo lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, le persone che persero la vita nel corso del processo di "arianizzazione" e “pulizia etnica” attuato dal regime nazista furono circa 20 milioni. La Giornata della Memoria è dedicata dunque non solo ai sei milioni di ebrei che in tutto il mondo oggi si ricordano ma anche a questi milioni di sommersi, senza nome, condannati all’oblio. Nei forni dei campi di sterminio si stima infatti siano stati uccisi sei milioni di slavi russi, serbi, ucraini, polacchi, sloveni; trecentomila rom e sinti; circa un milione e mezzo di dissidenti politici, e un numero imprecisato di disabili e omosessuali.

A Milano, dove come a Roma è stata vietata la manifestazione a sostegno del popolo palestinese, nei confronti dei quali da ieri è stato ufficialmente riconosciuto il rischio di genocidio, esiste l’unico memoriale europeo della Shoah costruito su un luogo di deportazione: il Binario 21 della Stazione Centrale. Da quel binario, utilizzato prima della Seconda Guerra Mondiale per il trasporto delle merci, sono stati deportati 1200 ebrei, diretti per lo più ad Auschwitz-Birkenau e Bergen Belsen. Solo cinquanta fecero ritorno. Fra loro Liliana Segre, da trent’anni impegnata in una battaglia contro l’indifferenza e la disconoscenza della storia.

Disconoscenza alla quale si deve la nascita del più grande memoriale diffuso d’Europa: le Pietre d’inciampo. Ideate nel 1990 dall’artista berlinese Gunter Deming in risposta a un cittadino di Colonia che contestava la deportazione di 1000 sinti della città renana, sono blocchetti quadrati (10x10cm), molto simili ai sampietrini. Ricoperte da una placca di ottone sulla quale è riportato il nome, l’anno di nascita, il giorno e il luogo di deportazione e la data della morte della vittima, sono incastonate di fronte al portone di casa dell’ultima residenza di un deportato nei campi di concentramento e sterminio nazisti. Dal 1990 a oggi ne sono state posate più di 100.000 in tutta Europa.

A queste Pietre sono ispirate quelle comparse ieri all’alba a Roma, davanti alla sede dell’agenzia Onu per i rifugiati. Un’ installazione realizzata da un collettivo di otto giovani artisti italiani che ne ha incollate 50. A differenza di quelle originali sono stampe adesive: recano i nomi delle vittime palestinesi, la data della morte e il modo in cui sono state assassinate. Un’azione anonima che, come spiega una di loro, vuole dare forma “al lutto che proviamo tutti, come umanità”. Anche la scelta della sede dell’Onu segue lo stesso criterio delle Pietre d’Inciampo: sono state posizionate lì per ricordare gli oltre 136 dipendenti ONU morti sotto le bombe di Israele. E val la pena ricordare, in questa strana giornata della memoria, che sotto le bombe di Gaza sta morendo anche la cultura palestinese e insieme a lei stanno polverizzando le sue radici e il suo futuro. E come tutti sappiamo senza radici, come gli alberi, un popolo muore.

Per una macabra e grottesca simmetria del destino poi, questa Giornata cade all’indomani di una storica sentenza, una di quelle che segnano un’epoca, che ha stabilito che le azioni di Israele a Gaza violano plausibilmente la Convenzione sul genocidio e indicato misure provvisorie per prevenirlo. La decisione della Corte di Giustizia, comunque la si voglia leggere, è uno spartiacque che segna un prima e un dopo difficile da ignorare, comunque vada a finire la causa, che durerà anni, e che vede sul banco degli imputati proprio Israele, Nazione nata sulle ceneri dell’Olocausto, a tutt’oggi il più grande sterminio di massa che la storia ricordi.

Così accade che mentre qui, in quest’angolo di mondo, oggi si susseguono iniziative per non dimenticare il mostruoso tentativo di cancellare gli ebrei dalla terra, dimenticando però che insieme a loro sono stati sterminati almeno altri 12/14 milioni di persone, alle porte di Israele c’è un popolo, quello palestinese, al quale viene negato il diritto di esistenza e la sua memoria viene strappata e cancellata ogni giorno, ridotta crudelmente a fumo nel vento.

Se io dovessi morire, tu devi vivere, per raccontare la mia storia”. Anche questa è memoria: ogni nome che si dimentica, ogni vita cancellata in silenzio è fumo nel vento. Lo sapeva bene il poeta e professore dell’Università Islamica di Gaza Refaat al Areer, che poche settimane prima di morire sotto un bombardamento aereo israeliano ha scritto il suo ultimo poema intitolato, appunto, Se io dovessi morire. Un epitaffio che è anche una speranza: quella di non essere dimenticati.

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