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Corrado V, Zaccaria racconta la storia dell'ultimo rampollo degli Svevi

Fugace e bruciante si rivelò la vicenda umana e politica di Corrado V di Svevia, più comunemente conosciuto con il diminutivo di Corradino (1252 - 1268), una sorta di “Romolo Augustolo” degli anni tardo-medievali italiani, l'imperatorello diciassettenne, in pectore, che, spinto dai fanatici partigiani della germanica casa di Hohentaufen, interpretò, con malinconia e mestizia, un velleitario quanto esiziale tentativo di riappropriazione della corona della casata, del Regno meridionale d'Italia, conquistato da Carlo d'Angiò (1266 - 1285) su imput sobillatorio, prima del pontefice Urbano IV (1261 – 1264) – Jacques Pantaléon, e quindi, dal suo successore al Soglio di Pietro, Clemente IV – Guido Gros de Saint Gilles -, (1265 – 1268), odiatori della famiglia imperiale germanica, per le jugulatorie diàtribe intercorse, a ritmo parossistico, particolarmente tra il pontefice Gregorio IX, (1227 – 1241), Ugolino di Anagni, e l'imperatore Federico II di Svevia al quale, per ben cinque volte, fulminò contro la scomunica.
Ora, la tragica avventura dell'imperiale fanciullo prende l'abbrivio dalle fitte pagine del saggio dello studioso e giornalista de IL Mattino di Napoli, la capitale del Reame del Sud. Nella quale si concluse la brevissima meteora dell'ultimo discendente maschile della potente stirpe tedesca i cui esponenti di punta rispondono ai nomi di Federico I (1121 – 1190), soprannominato il Barbarossa; Arrigo o Enrico VI (1190 – 1197); Federico II (1194 – 1250), nato a Jesi, nei pressi di Ancona: L'Aquilotto insanguinato. Vita, avventura e morte di Corradino, l'ultimo rampollo degli Svevi, prefazione di Pietro Gargano, Napoli, grausedizioni, 2020.
Una vena di amara, nostalgica simpatia dell'autore, Lino Zaccaria, attraversa sottilmente ogni singola pagina della monografia, che avvince ed attrae per il periodare serrato e scorrevole. L'Autore confessa, chiararamente, di essere stato iniziato dal padre alla conoscenza della sorte tragica del rampollo degli Hohenstaufen, tanto che “si insinuò così nel mio animo il mito di Corradino. E a mano a mano che procedevo verso l'età adulta -chiarisce l'Autore nella Introduzione al saggio-, si andava fortificando in me l'idea di scavare nella storia per approfondire la tragedia del nipote del grande Federico II, decapitato dopo il fallito tentativo di riconquistare la corona della sua casata” (p. 14).
Sebbene scritta da un non addetto ai lavori, ossia non da uno storico ex professo, ma da una persona che ha svolto la propria carriera professionale presso un quotidiano di informazione, per oltre un quarantennio, il giornalista Lino Zaccaria ha portato felicemente a termine l'indagine su di un brano essenziale della Storia d'Italia, e di quella Meridionale, in modo peculiare, con una scioltezza narrativa, frutto saporoso, germinato da una lunga, adusata confidenza con la penna. Ma, soprattutto, originato da un calibrato vaglio delle fonti e dalla valutazione attenta della letteratura storica connessa al “maldestro” tentativo del giovanissimo Corradino di tornare a dominare sul Regno del Sud, ormai ben saldo nelle rapaci mani di Carlo d'Angiò. Il quale era stato investito come sovrano del reame di Napoli, direttamente dal Pontefice Romano che, non lo si dimentichi, era l'alto Signore feudale della monarchia meridionale e, per di più, odiava profondamente la dinastia degli Svevi.
Essenziale, nel puntuale impianto dell'indagine, si rivela a questo proposito, il capitolo che l'Autore ha opportunamente intitolato La condanna nel quale all'articolata disamina della letteratura storica e giuridica, inerente il grave caso, si coniuga, con altrettale esame delle posizioni degli autori consultati, una onesta declinazione dell'itinerario politico che, in breve, condusse alla traumatica soppressione del povero Corradino. Vittima, non solamente della propra letale mancanza di una visione realistica della situazione del Regno, bensì anche, della gelida indifferenza del papa Clemente IV che, pur di togliersi di torno gli avversati svevi -lui già segretario di Luigi IX (1226 – 1270), o San Luigi, re di Francia, e fratello di Carlo d'Angiò-, non intervenne assolutamente per cercare di salvare una ancora acerba vita umana.
Si rivelò un gravissimo errore di valutazione quello commesso da Corradino e dai suoi consigliori: come si poteva pensare di poter conquistare la città di Napoli e, con essa, l'intero suo Regno ritrovandosi determinatamente contro la Chiesa di Roma ed il suo Papa? Era, a ben considerare, una pura follia. Folle, quindi, la decisione che si palesò fino al tragico compimento conclusivo sulla fatale piazza del Mercato a Napoli.
Era stato un esponente della antica casata dei Frangipane di Roma, Giovanni, ad essere, per così dire, decisivo nella soluzione del caso dell'inesperto adolescente svevo dopo la furente battaglia di Tagliacozzo (1268). Lo catturò, lo pose in stato di arresto, lo rinchiuse nella torre di Astura della quale il Frangipane era feudatario. Infine, lo consegnò all'Angiò perchè in seguito venisse giustiziato con la decapitazione, per ordine sovrano. “La torre pentagonale di Astura -spiega Lino Zaccaria-, poco a nord di Nettuno, faceva parte degli antichi possedimenti dei potenti Frangipane che appartenevano ad una nobile famiglia, [originata, a sua volta, come essi stessi pretendevano, dalla gens Anicia, di Roma], dalla quale, secondo il Tommaseo, ebbe origine la famiglia Alighieri” (p. 75). Sul palco, eretto al centro della trista piazza napoletana, l'avventuroso germoglio svevo venne così esposto al ludibrio ed alle ingiurie della feccia umana sbavazzante che sempre accorre, numerosa, per assistere a certi orridi spettacoli ed a compiacersi per avervi partecipato, solleticando la propria morbosità: meschina e disgraziata.
Certamente la Storia d'Italia e quella del Mezzogiorno in maniera decisiva, dopo quest'episodio luttuoso, ha conosciuto un abbrivio diverso; non possiamo però dire se più favorevole oppure negativo per le genti dell'Italia del Meridione. Anche perchè gli Svevi non erano stati da meno di quello che poi saranno gli Angioini. Anche con lo spoil-system da essi adottato, sostituendo le élites che avevano servito la casa di Svevia con il rapace baronaggio francese che ha angariato, salvo sparuti, sporadici casi, con sistematicità predace, le proprie sottoposte comunità. Il quale non aveva fatto altro che confermare come i sudditi del Mezzogiorno non potevano affatto sperare nella resipiscenza, sia pure rapsodica, del potente di turno. In particolare, l'Imperatore Federico II, che, per continuare e condurre la perenne lotta contro i liberi Comuni del Settentrione d'Italia, seviziò il popolo meridionale con una ininterrotta, spietata imposizione di tributi e balzelli che ebbero l'unica conseguenza di impoverire queste terre. Terre una volta felici e ritenute gli impareggiabili granai di Roma, ancora oggi prigioniere della sempiterna stritolatura della cosiddetta “Questione Meridionale”. Dalla quale non ci si riesce tuttora a risollevare, nonostante le spinte propositive poste in atto, lungo il corso dei decenni di cronaca e di storia meridionale che si sono snodati, pur fra traumi e profittevoli pause, seguendo un invisibile, logico filo che rifugge da ogni sfilacciatura e da ogni sorta di greve barocchismo: societario e politico.