Carcinoma epatocellulare: il punto su fattori di rischio e possibili approcci
Convegno EASL a Ginevra - L'intervista di affaritaliani.it a Fabio Piscaglia, Professore associato di Medicina Interna all’Università di Bologna
Il carcinoma epatocellulare è il tumore più frequente del fegato, al quarto posto come causa di morte per neoplasia maligna. Negli ultimi anni ha rappresentato la terza causa di morte legata a tumore nella popolazione di età compresa tra 50 e 69 anni. Si stima che in Italia nel 2017 siano stati diagnosticati oltre 13.000 nuovi casi di cancro al fegato, rappresentando verosimilmente il 5% dei casi di tumore maligno.
Se ne è parlato a Ginevra nel corso della terza edizione del Congresso organizzato da EASL - Associazione europea per lo studio del Fegato “From basic to clinical research: How to improve HCC clinical care?”, dall’1 al 3 marzo.
Nel corso dei lavori, c’è stato anche un focus specifico sulle nuove terapie mirate e, per approfondire la tematica, affaritaliani.it ha intervistato Fabio Piscaglia, Professore associato di Medicina Interna all’Università di Bologna - Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche.
Prof. Piscaglia, quali sono i fattori di rischio associati al carcinoma epatocellulare?
“Tradizionalmente, questa patologia si associa all’Epatite B e all’Epatite C, soprattutto quando vi è un’evoluzione in fibrosi severa o in cirrosi. Per quanto l’Italia, fino a qualche anno fa questi casi rappresentavano l’80% del totale. Oggi siamo intorno al 60%, perché assistiamo al fenomeno emergente dei tumori del cosiddetto ‘fegato grasso’. In questa fattispecie, non è nemmeno necessario che si arrivi alla fibrosi o alla cirrosi: nella metà dei casi, la patologia insorge anche prima. Le cause sono ancora ignote per la massima parte, al di là di alcune variabili che già conosciamo legate al diabete e all’età. Ovviamente non voglio fare del terrorismo psicologico, perché le situazioni non evolvono sempre in questo modo. Tuttavia, se si ha il fegato grasso è opportuno fare attenzione e tenere sotto controllo alcuni parametri come le transaminasi e la durezza del fegato, oltre ad adottare opportuni correttivi nel proprio stile di vita, soprattutto rispetto all’attività fisica e alla tipologia di alimentazione”.
Qual è l’andamento della patologia in Italia?
“Da un punto di vista epidemiologico, la situazione riflette quanto ho appena detto. Il numero di tumori in Italia, che prima cresceva di anno in anno, non è più in aumento, per via dei buoni effetti delle terapie antivirali. A partire dagli anni ’80, vista l’emergenza-AIDS, si è iniziato a fare più attenzione alla trasmissione dell’epatite attraverso l’uso di siringhe monodose e altri accorgimenti, quindi le epatiti che circolano oggi sono frutto dell’onda lunga degli anni ’60 e ’70. Questo ha prodotto un calo dei casi, che è stato accelerato – appunto – dalle terapie antivirali. A questo calo, però, fa da contraltare l’aumento di nuovi casi dovuti al fegato grasso e quindi il numero complessivo si è stabilizzato: non aumenta, ma non cala nemmeno. Questo si lega anche all’ampia fetta di popolazione che è sovrappeso. Va detto, però, che il tasso di infezione da epatiti è più alto all’estero che in Italia”.
Come possono incidere sul decorso della malattia farmaci antitumorali?
“Non c’è la possibilità di guarire la malattia, ma i farmaci, come ad esempio sorafenib e regorafenib, ne rallentano la crescita, allungando la vita del paziente”.
In quale misura?
“Lo spettro è abbastanza ampio. Per alcuni pazienti il beneficio è quasi nullo, mentre altri sopravvivono per alcuni anni. Purtroppo ancora manca un marcatore che ci consenta di distinguere tra i vari pazienti e comprendere quali farmaci facciano al caso di ognuno. Tuttavia, va detto che, rispetto a soli 10 anni fa, sono stati fatti davvero dei passi da gigante e che per il futuro è lecito attendersi uno sviluppo della conoscenza che ci consenta di approntare per ognuno un trattamento individualizzato”.
Durante il congresso si è discusso anche del ruolo del sistema immunitario: in quali termini?
“Questa parte è molto interessante e andrà certamente sviluppata con la ricerca. Pare infatti che la regolazione immunitaria predica non solo la predisposizione del soggetto a sviluppare il tumore, di qualunque tipo, ma anche il grado di aggressività della patologia. Su questo c’è ancora molto da lavorare, ma si tratta di un filone di enorme interesse. Inoltre, si è affrontata la questione dei metodi diagnostici per il tumore al fegato e in particolare dell’ecografia con il mezzo di contrasto: l’efficacia di questo strumento, che noi italiani abbiamo sempre sostenuto, è stata riconosciuta anche a livello internazionale e questo conferma il nostro valore in questo campo specifico”.