Alcuni l’hanno già definita ‘sindrome cilena’. Il paese latinoamericano è il secondo al mondo per vaccinazioni, subito dietro Israele. Degli oltre tredici milioni di persone raggiunte, quasi sette – circa un terzo della popolazione – sono completamente vaccinate. Al ritmo delle attuali 300mila iniezioni al giorno, la meta dell’80 per cento di immunizzati entro la fine di giugno non sembra così lontana.
Eppure, nell’ultimo mese, il Paese australe ha registrato una drammatica impennata di contagiati e morti. Dalla fine di marzo, i nuovi casi non scendono sotto quota 6mila. E si conta una media di un centinaio di vittime al giorno. La scorsa settimana con quasi 7mila infettati e 179 decessi, il Cile sembrava essere riprecipitato nell’incubo di un anno fa. Al 28 aprile nuovo record di ricoveri in terapia intensiva: 3.406. La regione australe è la più colpita con 475 nuovi contagi in 24ore, un aumento del 24% rispetto alla settimana scorsa.
Che succede?
Un mix di fattori, dalla penetrazione della cosiddetta “variante brasiliana” – più letale e contagiosa –, al tipo di siero impiegato. Solo il 10 per cento delle volte è stato somministrato Pfizer-BioNTech: il resto – 90 per cento – ad essere distribuito è stato Coronavac, prodotto dal laboratorio di Pechino Sinovac, la cui efficacia è oggetto di una controversia internazionale.
Il prodotto non è stato ancora incluso nella lista di emergenza elaborata dal gruppo di consulenti strategici dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Tale reticenza è dovuta alla non pubblicazione da parte del Dragone dei dati raccolti nell’ultima fase di sperimentazione.
Ora il Cile potrebbe essere il primo paese al mondo a far partire una terza fase di vaccinazione di massa.
Dall'inizio della campagna vaccinale in giro per il mondo, diversi studi hanno cercato di determinare con quale frequenza è necessaria una "terza dose", oppure se il vaccino sarà annuale, vista la proliferazione delle oltre 4mila varianti del coronavirus che circolano in tutto il mondo e la capacità mutazionale del patogeno.
L'idea di applicare una terza dose per il vaccino Covid-19 è stata sollevata da tempo da alcuni ricercatori come un modo per, in primo luogo, promuovere risposte immunitarie più robuste negli individui che rispondono debolmente alla vaccinazione; secondo, prolungare nel tempo l'immunità contro questo virus, aumentando l'intensità della risposta immunitaria generata contro Sars-CoV-2 dopo la vaccinazione con due dosi; e in terzo luogo, completare o intensificare la protezione conferita dalle dosi precedenti per neutralizzare eventuali nuove varianti del virus che stanno circolando nel mondo (il che potrebbe comportare aggiornamenti nella formulazione dei vaccini in considerazione delle varianti esistenti.
Poche settimane fa lo stesso CEO del colosso farmaceutico statunitense Pfizer ha sottolineato che le persone che hanno ricevuto il vaccino avranno "probabilmente" bisogno di una terza dose in un periodo da sei mesi a un anno, e poi probabilmente un'iniezione ogni anno: "Un'ipotesi probabile è che sia necessaria una terza dose, tra i sei ei 12 mesi, e da lì sarà necessario vaccinare ogni anno, ma tutto questo deve essere confermato", ha detto Albert Bourla, aggiungendo che sono state avviate alcune indagini epidemiologiche negli USA per stabilire se una ‘terza dose’ debba essere ritenuta assolutamente necessaria.
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