Milano
Non convince il “Falstaff” diretto da Daniele Gatti
Una riproposizione museale con scelte discutibili del direttore ed aggravata dal declino artistico di Ambrogio Maestri. La recensione
Non convince il “Falstaff” diretto da Daniele Gatti
Ci eravamo già posti la domanda un anno e mezzo fa in relazione alla riproposta delle “Nozze di Figaro” di Mozart nella regia di Giorgio Strehler da parte della Scala (QUI l'articolo), chiedendoci “ma siamo a teatro o al museo?”. La stessa domanda ce la poniamo adesso a proposito della ripresa scaligera (a cura di Marina Bianchi) del “Falstaff” dello stesso Strehler datato 1980, e la risposta è la stessa: “Sì, siamo al museo”.
Ha un senso riproporre regie storiche, che quando apparvero furono delle autentiche rivoluzioni culturali, invece di privilegiare nuove forme espressive, la ricerca di soluzioni registiche più consone ai nostri tempi? Ha un senso, certo, ma quello della “conservazione” museale, come del resto fa l'Opera di Roma riproponendo tutti gli anni l'originaria regia/scenografia di “Tosca” del 1900. Ma c'è anche chi su riproposte di questo tipo ci campa, come il Metropolitan di New York che con gli spettacoli pucciniani di Zeffirelli (oggi, almeno secondo l'ininfluente opinione dello scrivente, veramente indigeribili) continua a riempire la sala (i cui prezzi sono ancora più proibitivi – sembra impossibile – di quelli del teatro milanese).
Un Falstaff senza scintilla
E va bene così... Ma che almeno queste riproposte museali siano convincenti dal punto di vista musicale. Così non è stato – sempre secondo l'ininfluente opinione dello scrivente – in questo “Falstaff” scaligero diretto da Daniele Gatti. Direttore di grande spessore, aveva entusiasmato il vostro cronista nei magnifici “Meistersinger” di Wagner del 2017, lasciandolo poi però perplesso in certe letture sinfoniche di Beethoven e Mahler, con scelte agogiche molto personali. Certo, la personalità fa “personalità”, e una personalità è forte o non è. E Gatti ha personalità da vendere. Le sue sono scelte interpretative forti, che come tali meritano rispetto.
Ma – secondo la sempre ininfluente opinione del vostro cronista – a questo “Falstaff” sono mancate sia la scintilla sia la levità, che sono le cifre distintive di questo immenso capolavoro, uno degli “8.000” dell'opera lirica di tutti i tempi. Gatti ha consapevolmente scelto una lettura col freno a mano. Un esempio per tutti: l'inizio della seconda parte del primo atto, quella in cui entrano in scena le allegre comari, è stato attaccato con tempi così lenti che il non certo pie' veloce Zubin Mehta (l'edizione del 2017 con la regia – quella sì magnifica – di Michieletto) al confronto era sembrato Usain Bolt!
Citando l'autorevole critico musicale del “Giorno” Elvio Giudici, “Gatti ha diretto molte volte quest'opera e sempre benissimo. Stavolta sceglie un approccio strano: orchestra densa, scura, pochissimi colori e niente brio, le fulminee aperture melodiche rese mai rapinose come dovrebbero bensì indugianti”, più da requiem che da commedia.
E in molti passaggi l'orchestra ha coperto i cantanti, soprattutto le voci femminili: o l'orchestra aveva un “volume” troppo alto (ad esempio, almeno dove era seduto il vostro cronista, forse per misteriose questioni di acustica scaligera, le trombe arrivavano eccessivamente forti) o le voci lo avevano troppo basso. Da un direttore del livello di Gatti tale disallineamento tra buca e palcoscenico non te lo aspetteresti.
Il tramonto artistico di Ambrogio Maestri
Ma il peggio deve ancora venire. E il peggio, è purtroppo, la constatazione del tramonto artistico di un cantante da noi molto amato, che per un quarto di secolo è stato “il” Falstaff di riferimento in tutto il mondo: Ambrogio Maestri, la cui voce non ha più armonici, graffia come la carta vetrata, ha perso la morbidezza, il calore e il colore che ne sono stati la cifra. Il tempo passa per tutti ma, come per i calciatori, bisognerebbe avere la forza di ritirarsi prima che la china discendente sia così palese (il discorso vale per molti, non solo per Maestri).
Il quartetto di voci femminili, come già detto, si è sentito poco, e poco incisive di conseguenza sono state le prestazioni di Rosa Feola (Alice), Martina Belli (Meg) e Marianna Pizzolato (Quickly); la migliore la giovane Rosalia Cid (Nannetta) dalla voce “piccola” ma incantevole.
Degli uomini, detto ahimè di Maestri, si segnala la buona prestazione di Luca Micheletti (Ford), che già ascoltammo nelle “Nozze di Figaro” dell'ottobre 2023 e anche in quel caso apprezzammo più le qualità attoriali di quelle vocali, che pure sono buone: il polivalente artista bresciano (anche attore di prosa e regista teatrale) ha una bella voce scura e morbida, pur se con qualche difficoltà nel registro alto. Inconsistente il Fenton di Juan Francisco Gatell; dei comprimari ben caratterizzato il Pistola di Marco Spotti.
Esemplare nella sua concisione il commento di un amico perugino che aveva assistito alla prima a proposito dello spettacolo nel suo complesso: “moscetto”. Come tutte le lingue straniere anche il perugino per essere tradotto ha bisogno di lunghi giri di parole, per cui lasciamo l'aggettivo nella sua icastica semplicità. Moscetto, appunto...
Recensione basata sulla recita di sabato 18 gennaio 2025.