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Boris Godunov alla Scala, una grande apertura di stagione

 Boris Godunov alla Scala, una grande apertura di stagione

Tutte le opinioni possibili e opinabili sono già state espresse. Compresa quella che rappresentare il Boris Godunov alla Scala fosse un aiuto alla propaganda di Putin, quindi sarebbe stato opportuno cancellarlo. Questa, se ci è consentito, più che un'opinione opinabile è una sciocchezza. Un conto è cacciare Valery Gergiev, grande direttore ma anche intellettuale organico alla dittatura putiniana (scelta dolorosa, artisticamente parlando, ma ha una sua logica e ci può stare), un altro è cancellare Musorgskij e la cultura russa che rappresenta. Come se per mostrare fedeltà all'Ucraina aggredita si dovesse smettere di leggere Dostoevskij (ci hanno provato, ricordate il caso Nori alla Bicocca?), Puškin, Gogol', Gončarov, Turgenev, Tolstoj, Čechov, estendendo il divieto a Ciaikovskij, Scriabin, Borodin, Shostakovic, Stravinskj, e staccando dalle pareti dei musei i quadri di Malevič, Kandinsky. El Lissitzky. La grande arte è patrimonio dell'umanità, oltre che del popolo nella quale è nata, e non del dittatore di turno. Quindi chiudiamo qui questo stucchevole argomento.

Sugli scudi Chailly, il coro e Abrdrazakov

Parliamo invece del Boris Godunov che ha aperto la stagione scaligera 2022-23, visto dal vostro cronista nella rappresentazione di martedì 20 dicembre, ormai perfettamente rodato rispetto alla prima di Sant'Ambrogio.
Tre sugli scudi: Riccardo Chailly, che conduce con dna abbadiano un'orchestra in grandissima forma; il coro di Alberto Malazzi, probabilmente la più alta istituzione musicale italiana in attività; Ildar Abrdrazakov, magnifico Boris, capace di disegnare anche dal punto di vista recitativo un personaggio scespiriano che è un Macbeth senza lady, ma anche un Filippo II senza Marchese di Posa.

La versione scelta è quella originale di Musorsgkij, il cosiddetto “Ur-Boris”, quella “breve” del 1869 (poco più di due ore e 20 di musica, contro le oltre 3 e mezzo delle versioni successive contenenti l'atto “polacco”): musica “abrasiva”, come l'ha definita lo stesso Chailly, è come farsi fare un massaggio con la carta vetrata, tanto è essenziale, scabra, quasi primitiva. La cosa che resta più impressa nella memoria audiutiva è la prevalenza degli strumenti scuri, “sporchi” e profondi: tromboni, basso tuba, fagotti (certi passaggi rimandano alla 6^ di Ciaikovskij); poi contrabbassi e violoncelli; e poi le percussioni, comprese campane e tam-tam (significativamente manca l'arpa, che sarà invece presente nella seconda versione del 1874). Ma il lamento dell'Innocente è mirabilmente raddoppiato dall'oboe. E il monologo finale di Boris sostenuto dalle viole, a loro volta distese sul tremolio dei violini. Magnifico, musicalmente magnifico. E magnificamente reso da Chailly e dall'orchestra scaligera.

Del coro abbiamo già detto: la nomina a patrimonio dell'Umanità da parte dell'Unesco sarebbe il riconoscimento minimo. E se c'è un'opera in cui il coro, cioè il popolo, è co-protagonista insieme al solista, questa è proprio il Boris.

Ildar Abrdrazakov: abbiamo ascoltato in passato dei Boris dall'emissione più potente e dal timbro più scuro, ma qui l'artista nato nella repubblica russa di Baschiria, ai confini con il Kazakistan, si impone in primo luogo come interprete, canta ogni nota e ogni sillaba scegliendo il colore necessario a ciascuna; il monologo della morte è cantato quasi in sordina, con una intensità attoriale da lasciare senza parole. Magnifico è l'unico aggettivo adatto.

Buona nel complesso la compagnia di canto, in particolare il Pimen di Ain Ager che parte in sordina e poi cresce nel corso dello spettacolo. Buono anche il falso Grigorij di Dmitry Golovnin, nonostante un volume vocale non sempre adeguato. La parte meno convincente della serata è la regia, con eccessivo uso dei “doppi” (bastava – magari ridotta – la presenza del fantasma del piccolo zarevic assassinato); poi chissà perché Kasper Holten ha voluto che Boris finisse pugnalato, non si sa da chi. I costumi sono un mix tra Cinquecento, Ottocento e Novecento, a rimarcare la natura atemporale del potere sanguinario. Le scene sono spettacolari, forse troppo, visto il taglio introspettivo dell'approccio musicale. Probabilmente si poteva osare di più nel sottolineare con maggior forza il legame politico e storico fra “trono e altare”, quello che vediamo ancora oggi tra Cremlino e Patriarcato ortodosso.

Ma nel complesso è una grande apertura di stagione, con un'opera priva di “arie” e senza nemmeno un duetto d'amore... mi immagino la grande maggioranza degli ospiti della prima di Sant'Ambrogio, compresi alcuni nel palco reale, guardare ansiosamente gli orologi in attesa della conclusione...

Il Boris alla Scala cento anni fa

Per finire, una curiosità storica: il Boris (all'epoca chiamato “Godunoff”) fu l'opera più eseguita alla Scala nella stagione 2021-22: 14 rappresentazioni (tutte dirette da Arturo Toscanini), contro le 13 di Rigoletto, le 11 di Parsifal e Mefistofele, le 10 di Falstaff, le 8 del Barbiere di Siviglia, le 7 di Trittico, Wally e Maestri cantori di Norimberga, le 3 dei Quattro rusteghi. Le cronache dell'epoca riportano le lamentele del pubblico per il fatto che Toscanini non sempre uscisse a ricevere gli applausi a fine spettacolo. Nello stesso anno l'opera fu rappresentata tre volte anche al Teatro Costanzi di Roma, sotto la direzione di Fritz Reiner.


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