Milano
L'opera di Verdi alla Scala. “Ballo in maschera” politicamente corretto
La cancel culture è evidentemente arrivata anche alla Scala
di Francesco Bogliari
Pensavamo di avere visto, se non tutto, già molto nella nostra vita, ma questa ancora ci mancava. Un ballo in maschera politicamente corretto, in cui la maga Ulrica, che nel libretto originale di Antonio Somma del 1859 “s'appella dell'immondo sangue dei negri”, nella versione data in questi giorni alla Scala diventa “del demonio maga servile”. E più avanti i “dirupi” di cui canta Amelia da “negri” diventano “neri”. Il libretto di sala del teatro ha la correttezza di evidenziare i cambiamenti (ci sono anche “Chi giunge!” al posto di “Si batte!”, “Rea ti festi” al posto di “Sangue volsi”, “d'amor mi brillerà” al posto di “”bear di voluttà” e altri epocali cambiamenti senza i quali non si sarebbe ben compresa la trama dell'opera...) senza peraltro spiegarne le motivazioni.
La cancel culture anche alla Scala
La cancel culture è evidentemente arrivata anche alla Scala, in sintonia con la follia ipocrita e demenziale che sta percorrendo il mondo occidentale. Che senso ha cancellare parole e frasi, sostituendole con altre considerate più accettabili alla nostra sensibilità di “contemporanei”, eliminandole dal contesto linguistico, semantico, culturale, storico in cui sono nate? Allora a questo punti si riscriva tutto il libretto, traducendolo in italiano corrente: anziché “sento l'orma dei passi spietati” (una delle perle della sublime illogicità dei libretti ottocenteschi, che rappresenta il loro fascino incomprensibile a chi non sta dentro la “bolla” di quella cosa assolutamente irrazionale che
è l'opera lirica) perché non mettere un più ragionevole e logico “sento il rumore dei passi spietati”?
Per fortuna almeno l'orma” è stata risparmiata...
Marco Arturo Marelli propone uno spettacolo da brume nordiche
Ma finiamola qui, il discorso ci porterebbe troppo lontano. Parliamo dello spettacolo in programma alla Scala in questi giorni. È una nuova produzione affidata a Marco Arturo Marelli, che ne cura
regia, scene e costumi. Attivo prevalentemente in Austria, Germania e Scandinavia (di lui chi scrive ha visto un Rosenkavalier alcuni anni fa a Copenaghen che non ha lasciato tracce nella sua memoria), il regista svizzero tedesco al suo esordio scaligero ci propone uno spettacolo da brume nordiche, e ci può stare (l'opera è “scura” di suo); ci può stare anche l'attore che mima la morte, chiara citazione dal Settimo sigillo di Bergman; ma è da cartellino rosso la sfrontata scopiazzatura
nell'atto finale di alcune idee scenografiche del Don Giovanni di Carsen, tra l'altro dato di nuovo poche settimane fa al Piermarini (si veda la nostra recensione su Affaritaliani del 30 marzo scorso).
Per non parlare poi dei congiurati in camicia nera che sembravano Balbo e Farinacci, forse un'anticipazione dell'imminente centenario della marcia su Roma. Nel complesso una regia sconclusionata e senza un quid.
Nel complesso una prova più che buona.
Musica. Doveva dirigere Riccardo Chailly, ma per motivi di salute è stato sostituito da Nicola Luisotti. Il maestro versiliese, formatosi professionalmente nel laboratorio del Pucciniano di Torre del Lago e da lì andato a farsi onore in giro per il mondo (tra i suoi incarichi quello di direttore dell'Opera di San Francisco dal 2009 al 2018) è tutt'altro che un routinier, come si è letto questi giorni in alcuni commenti sui social. È un ottimo direttore, che – come tutti - sa fare delle cose
meglio di altre: è stato convincente nelle parti più scure e drammatiche della partitura, e in quelle con i tempi più veloci, tirando fuori dall'orchestra densità, energia, profondità, spessore. Meno nelle
parti più intimiste e in quelle grottesche e comiche. A “Teco io sto”, uno dei più straordinari duetti d'amore dell'intera storia dell'opera, è mancata un po' di magia, e qui la responsabilità è soprattutto
di Luisotti. Comunque nel complesso una prova più che buona.
I cantanti. Quest'opera ne richiede tre, anzi quattro, di grandissimo livello. Iniziamo con Amelia: il soprano statunitense Sondra Radvanovsky, star assoluta degli ultimi anni al Metropolitan (e pochi
giorni fa è stata molto applaudita in Turandot a Roma con Pappano e Kaufmann) ha un volume di voce talmente potente che sicuramente i suoi acuti sono usciti dal teatro e, arrivati al casello di Melegrano, hanno superato il telepass, proseguendo fino alle terre verdiane del Parmense. Timbro non proprio limpido, con degli squilibri sulle note centrali, ha però mostrato grande maestria anche negli smorzati e la sua performance ha conquistato il pubblico (teatro pieno). Riccardo è Francesco Meli, al suo ventesimo ruolo verdiano in carriera: certo non Pavarotti né Domingo né Kaufmann, sugli acuti mostra qualche sforzo, ma il suo fraseggio è talmente nobile e il suo timbro talmente luminoso (fra i tenori in attività è quello che in qualche modo più ricorda - con le dovute distanze - Carlo Bergonzi) da riuscire ancora a conquistare il cuore degli spettatori. Un signor tenore, per quanto il meglio di sé probabilmente l'abbia già dato. Renato è Luca Salsi, uno dei baritoni più affermati sulle scene mondiali. Personalmente l'abbiamo
sempre trovato eccessivo nelle forzature di stampo veristico anche in opere di altro repertorio, tendente all'urlo un po' sguaiato; ma l'altra sera si è imposto un autocontrollo ammirevole: “O dolcezze perdute, o memorie!” è stato miracoloso, e l'artista parmense intenso ed elegante come mai ci era capitato di sentire.
Abbiamo detto che c'è anche un quarto protagonista, la strega Ulrica. Parte impervia, cavallo di battaglia del repertorio dei contralti: la russa Yulia Matochina se l'è cavata bene, con sufficiente profondità e intensità. Federica Guida è stata un Paggio un po' debole, dalla voce sottile. Buoni i congiurati, appunto Balbo e Farinacci, cioè Sorin Coliban e Jongmin Park (il giovane basso profondo coreano che ha cantato in quasi tutte le opere della stagione scaligera). Da dimenticare il Silvano di Liviu Holender.
Alla fine il pubblico (che nella replica a cui abbiamo assistito era in prevalenza straniero; Milano evidentemente è tornata nei circuiti del grande turismo internazionale) ha regalato a tutti molti minuti di applausi convinti. E comunque, al di là di ogni regia, di ogni direzione e di ogni cantante, ora e sempre Viva Verdi, il Padre nostro che è nei cieli.