Milano

Un brutto “Simon Boccanegra” alla Scala

Francesco Bogliari

L'opera di Verdi diretta da Lorenzo Viotti, con regia di Daniele Abbado. Una rappresentazione modesta, non all'altezza della Scala

Un brutto “Simon Boccanegra” alla Scala

È stato brutto. Aiutamemi a dire brutto. Tu, Teatro alla Scala, non puoi, nel decennale della morte di Claudio Abbado, permettere che venga dato un “Simon Boccanegra” - L'Opera (con le maiuscole) di Claudio Abbado – così modesto, mediocre, anonimo, ripeto brutto, come quello andato in scena in questi giorni sul Tuo prestigioso palcoscenico.

Il vostro cronista nel 1971 ascoltò per la prima volta il “Simon Boccanegra” scaligero alla radio, in diretta su Rai 3, e rimase basito dalla grandezza di questa musica scura, oscura e tenebrosa. Poi nel 1976 lo vide per la prima volta in teatro, restandone segnato per sempre:  direttore Claudio Abbado, regia di Giorgio Strehler, scene di Ezio Frigerio; Cappuccilli, Nucci, Freni, Luchetti, Ghiaurov le voci. Non va bene, Teatro alla Scala: se non puoi affidarti ai migliori, non dare il “Simon Boccanegra”, che è opera impervia come poche ed è “Tua” opera come poche.

Simon Boccanegra, una rappresentazione modesta. Non si salva (quasi) nulla

Daniele Abbado fa una delle sue solite regie scarne, scabre, che vanno bene se ti chiami Robert Carsen, altrimenti è solo sottrazione senza aggiunta di valore. Ridicoli soprattutto i movimenti di massa, con figuranti che corrono senza senso sventolando bandiere senza senso. Costumi (Nanà Cecchi) datati secondo Ottocento, comprese le divise finto-sabaude dei soldati, ma Simone, Fiesco e Amelia vestono tuniche atemporali, senza alcuna connessione col resto dei costumi. Modesto, molto modesto. Non da Scala.

Il giovin direttore Lorenzo Viotti, che ci era piaciuto due anni fa in “Thais”, è palesemente non all'altezza del compito. Si capisce subito dal prologo: le onde nere, dense di pece di quello che è uno dei momenti più alti della storia dell'Opera – che dovrebbe farti oltrepassare lo stargate e trasportarti in un'altra dimensione – non si vedono, non si sentono. L'orchestra è slegata, priva di amalgama, senza pathos, e tale resterà per tutta l'opera, capace solo di aumentare il volume nei momenti più concitati facendo a gara con i cantanti a chi urla di più (la sola cosa positiva è che spesso ha coperto l'inascoltabile Anger).

Compagnia di canto: le pagelle. Un pessimo Anger. Castronovo generoso ma selvatico

Tu, Scala, non puoi scritturare un cantante palesemente – e non da oggi o dall'altro ieri – pessimo come Ain Anger, per fargli cantare la parte di Fiesco.

Luca Salsi, che fa Simon Boccanegra, è il più verdiano di tutti, ha la parola scenica richiesta dal Padre Giuseppe; è bravo a controllare i pianissimi e i passaggi più intimistici, è credibile nei tormenti del vecchio potente giunto a fine corsa, ma in certi momenti sembra scattare involontariamente lo Scarpia nascosto che è in lui. Rivedibile; ma averne, di Salsi!

Eleonora Buratto, Amelia, ci aveva convinto più nei “Contes de Hoffmann” della scorsa stagione. Ha voce un po' metallica e forza eccessivamente gli acuti; limitiamoci a dire che dovrebbe chiudersi con le cuffie a studiare per mille ore l'Amelia di Mirella Freni, e poi ne riparliamo.

Gabriele Adorno è Charles Castronovo, giovane newyorchese star del Metropolitan al debutto scaligero. Senz'altro un talento naturale, però avrebbe bisogno di buoni maestri di canto per migliorare l'intonazione, generosa ma un po' selvatica.

A proposito di maestri di canto, avete fatto caso che una volta si diceva “maestro concertatore e direttore d'orchestra” e oggi si parla solo di “direttore d'orchestra”? Chi/come prova le parti d'orchestra, chi/come fa le prove al piano con i cantanti? Abbado, inteso come Claudio, faceva entrambe le cose e al piano accanto a lui c'erano dei “fidi maestri sostituti”, giusto per parafrasare Adorno (Theodor W., non Garbiele...). Che ci sono sicuramente ancora oggi, ma non se ne sente la traccia. Figli di una programmazione “industriale” che richiede di tagliare i tempi di produzione per stare nei budget. I teatri sono aziende, che diamine!

Il migliore della compagnia di canto alla fine è Roberto de Candia, che come raramente succede fa di Paolo Albiani una parte primaria. L'unico che sia anche scenicamente consapevole di quello che succede.

Scala, come sempre il Coro salva la baracca

Ma come sempre la baracca è salvata dal Coro istruito da Alberto Malazzi: il coro nuziale dietro le quinte dell'ultimo atto, mentre Paolo viene portato al supplizio (il terribile/sublime “Sei sacro alla bipenne!”), è il momento musicalmente più alto dell'opera.

[recensione scritta in relazione alla recita del 14 febbraio 2024]







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