Milano

Un grande Michele Mariotti fa splendere il "Guillaume Tell”

Di Francesco Bogliari

Alla Scala l'ultima opera scritta da Rossini

Un grande Michele Mariotti fa splendere il "Guillaume Tell”

Che tu sia maledetto, Gioachino! Perché dopo il 1829, quando regalasti al mondo il “Guillaume Tell”, non hai più scritto opere fino al momento in cui il Creatore, evidentemente irritato anche Lui, decise di richiamarti a sé, nel 1868? Trentanove anni senza più un'opera, tu che ne avevi composte 39 (43 contando le diverse versioni) in 19 anni, fra i 18 e i 37? Ti sei dedicato più alla cucina, alla bella vita e alle cause legali che alla musica, salvo i deliziosi, raffinati, ironici, cinici “Péchés de vieillesse” (“peccati di vecchiaia”). E cara grazia che ti sei degnato di lasciarci due capolavori sacri: lo “Stabat Mater” del 1833 (completato nel 1841) e la suprema “Petite Messe Solennelle” del 1863 (orchestrata nel 1867 per evitare che lo facesse qualcun altro).
Ripeto, che tu sia maledetto, Gioachino Rossini. Hai privato l'umanità di 39 anni di bellezza. E per questo delitto forse stai già pagando nelle fiamme dell'Inferno, perché il buon Dio ama la musica e non può perdonare lo spreco di talento da parte di chi ne aveva ricevuto in abbondanza. E comunque aspettami: quando sarà il momento e saremo tutti nella Valle di Giosafat, ti cercherò in mezzo ai miliardi di umani resuscitati, ti troverò e ti prenderò per il bavero costringendoti a confessare: “Perché?” e poi, se la risposta mi convincerà, ti farò firmare a forza di schiaffi un contratto per la scrittura di nuove opere fino alla fine dei tempi.
Scusate lo sfogo, ma tale era il senso di frustrazione del vostro cronista al termine delle 5 ore (e 4 minuti, per la precisione, trattandosi di opera ambientata in Svizzera...) del “Guillaume Tell” rappresentato alla Scala, stordito dalla bellezza suprema di questa musica di fronte alla constatazione che dopo l'ultima nota del “Tell” il nostro amato Gioachino aveva appeso la penna al chiodo, preferendo dedicarsi ai fornelli e ad altre amenità.

Prima volta  alla Scala nella versione originale in francese

Opera meravigliosa il “Guillaume Tell”, dato – sembra incredibile – per la prima volta nella storia alla Scala nella versione originale in francese. E comunque l'opera non era rappresentata al Piermarini dal 1988, quando ci fu l'accoppiata Riccardo Muti-Luca Ronconi, con due campioni come Chris Merritt e Cheryl Studer nella compagnia di canto e Carla Fracci solista nel balletto.

Arriviamo finalmente al dunque. In estrema sintesi, uno spettacolo musicalmente superbo, registicamente dimenticabile. Michele Mariotti, a 45 anni, è a nostro modesto parere il miglior “giovane” direttore italiano in attività e uno dei migliori a livello internazionale. Cresciuto a pane, latte e Rossini (suo padre Gianfranco creò nel 1980 il Rossini Opera Festival a Pesaro), ha debuttato nel 2005 – a 26 anni – sul podio del Teatro Verdi di Salerno dirigendo “Il Barbiere di Siviglia”. Dal 2008 al 2018 è stato prima direttore principale e poi direttore musicale del Teatro Comunale di Bologna (sua, solo per citarne una, la stupenda “Bohème” con la regia di Graham Vick che nel 2018 vinse il premio della critica musicale “Franco Abbiati” come miglior spettacolo dell'anno). Dal 2022 è direttore musicale del Teatro dell’Opera di Roma.
Si è capito subito che Mariotti era in stato di grazia fin dall'ouverture, dalla tersa e malinconica melodia affidata al violoncello solo (il magnifico Massimo Polidori) poi raggiunto dagli altri violoncelli e dai contrabbassi, allo sviluppo che termina con il celebre travolgente galop. Fino ai tre minuti finali quando tra gli arabeschi dell'arpa svaniscono le nuvole e torna a splendere il sole. In mezzo cinque ore di musica – mi ripeto, ma non trovo altre parole più adatte – di stordente bellezza, con una orchestra anch'essa in stato di grazia in tutte le sue componenti.

Regia semplicemente noiosa e monocorde

Eccellente la compagnia di canto: Michele Pertusi canta la parte del titolo da decenni; lo fa con nobiltà, eleganza e totale dominio della parola scenica, anche se a partire dal terzo atto ci è parso un po' affaticato. Il tenore russo Dmitry Korchak affronta spavaldo la più che impervia parte, con tutte quelle incredibili mitragliate di acuti, ma sa anche modulare con eleganza le mezze voci quando servono. La Mathilde di Salome Jicia ha un bel timbro non accompagnato da un’altrettanto convincente emissione, ma nel complesso merita la sufficienza. Tutti bravi i cosiddetti comprimari, che poi in quest'opera sono tutt'altro che comprimari: dal Melchthal di Evgeny Stavinsky, al Gesler di Luca Tittolo, al Walter Furst di Nahuel Di Pierro, alle altre due donne del cast, Catherine Trottmann e Géraldine Chauvet che nell'ultimo atto cantano molto bene uno dei più bei terzetti femminili dell'intera storia dell'opera (“Je rende à votre amour un fils digne de vous”). Ma il migliore in assoluto – chevvelodicoaffare!- è stato come sempre il Coro istruito da Alberto Malazzi, la più prestigiosa delle compagini musicali italiane. Coro che nella rappresentazione del popolo svizzero oppresso dagli austriaci e in lotta per la libertà è il vero co-protagonista dell'opera.

Abbiamo lasciato alla fine la regia, sonoramente contestata la sera della prima. Chiara Muti aveva un progetto chiaro in testa e l'ha perseguito in maniera coerente, senza cedimenti né smagliature concettuali. Scordatevi le indicazioni del libretto: “... a sinistra sbocca il torrente Schachen, attraversato da un ponte; una barca è ormeggiata alla riva. Alcuni contadini ornano di frasche le capanne destinate a tre nuove famiglie; gli altri sono impegnati in vari lavori agricoli ecc. ecc.”. Niente di tutto questo, la natura non c'è; ci sono solo dei rudi e scuri parallelepipedi che ruotando a seconda della situazione compongono fondali urbanistici claustrofobici. Il popolo è schiavo e controllato tecnologicamente attraverso i tablet sempre accesi. Tutto è tetro e angoscioso. Stranamente simile alla scenografia della “Dama di Picche” del 2022, anche quella tutta basata su parallelepipedi che assumevano varie configurazioni; e anche lì total black (beh, se c'è un'opera dominata dal buio dell'angoscia è proprio “La Dama di picche”; il “Tell” magari anche no, o almeno lo è in maniera diversa).
Detto questo, constatata la coerenza interna delle scelte di Chiara Muti, al vostro cronista questa regia è apparsa semplicemente noiosa e monocorde, in una parola banale. Tanto che la cosa che gli è più piaciuta è quella che ha scatenato maggiormente i buu dei loggionisti, cioè il lungo balletto del terzo atto, dove finalmente c'era del colore (il rosso e il bianco) e l'idea del carnasciale grottesco e lascivo dei sette peccati capitali è stata rappresentata con un che di torbidamente fascinoso (grazie anche ai costumi e – diciamolo – all'avvenenza delle ballerine).
Alla fine grandi applausi per Mariotti, Malazzi, Pertusi, Korchak e, a scendere, per tutti gli altri.

La recensione di riferisce alla recita del 3 aprile, quarta rappresentazione. 







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