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Wiener Philharmoniker alla Scala: l'Orchestra Perfetta

Wiener Philharmoniker alla Scala: l'Orchestra Perfetta

Wiener. Punto. Philharmoniker. Punto. L'articolo potrebbe chiudersi qui. Che cosa si può ancora dire dopo migliaia, milioni di pagine scritte in tutto il mondo sull'Orchestra Perfetta, tornata ieri sera alla Scala dopo due anni dall'ultimo concerto?

Va bene, qualcosa diremo, ma a conferma che un'esibizione dei filarmonici viennesi è il trionfo della tradizione, anzi la cultura, la civiltà stessa della tradizione. Anzi, della Tradizione con la T maiuscola, quella cosa che conforta la nostra identità più profonda.L'Orchestra Perfetta è così perfetta da far nascere un pensiero malizioso: questi suonerebbero anche senza direttore (a parte che i direttori li scelgono loro, come i programmi e i solisti, una forma di aziendalismo democratico).

Jordan, il Robocop dei direttori d'orchestra

Ieri sera sul podio c'era, in sostituzione dell'indisposto Riccardo Chailly, una delle bacchette più solide in circolazione, lo svizzero tedesco Philippe Jordan. Qualcuno lo chiama Robocop, per una gestualità secca e lo sguardo improntato a fiero cipiglio (alternato però a improvvisi sorrisi); rigidità posturale evidente più in Mozart (diretto a mani nude) che in Strauss (diretto con la bacchetta). Prova eccellente, Jordan è sicuramente fra i direttori top in attività; ma l'idea che l'orchestra potesse suonare da sola (col primo violino a dare l'attacco) è una boutade che gira spesso tra gli ascoltatori. Tanta è l'ammirazione per questa gioiosa macchina da guerra (questa sì vincente...).

Sinfonia 39: un Mozart ostico

Il Mozart della sinfonia 39 è un Mozart ostico, la melodia è sempre come oscurata da nuvole grigie; anche nei movimenti più veloci, compreso il magnifico minuetto, c'è una malinconia superiore a quella che c'è sempre di base in Mozart. La levità profonda degli archi all'inizio del secondo movimento è una di quelle cose che restano stampate in eterno nella memoria di un ascoltatore; come la sublime morbidezza dei corni e dei clarinetti nel corso di tutta la sinfonia. Sono loro, i Wiener, nessun altro come loro.

La macchina da guerra della Wiener e lo Strauss di "Una vita d'eroe"

Il Richard Strauss di “Una vita d'eroe” (“Ein Heldenleben”) porta dopo l'intervallo al raddoppio dell'orchestra sul palcoscenico, una macchina veramente da guerra, monumentale, ipertrofica. Il  bavarese scrive qui la sua autobiografia in musica, con l'autoironia di uno che a 34 anni si sente padrone del mondo, e quindi può anche prendere in giro se stesso e infilare dentro un numero impressionante di autocitazioni. Il vostro cronista ritiene che la punta più alta del sinfonismo straussiano sia “Morte e trasfigurazione”, scritta dieci anni prima; “Una vita d'eroe” è soprattutto una prova di vertiginoso virtuosismo.

Una partitura lussureggiante come poche nella storia della musica, che in quanto tale riesce a esaltare alla perfezione le capacità tecniche e interpretative dell'orchestra. La sezione fiati è quanto di più meraviglioso si possa immaginare su questa terra: il miracolo delle tre trombe fuori scena, il dialogo del basso tuba col violino (il sommo Rainer Honeck, forse il vero “direttore” dei Wiener), gli interventi del corno inglese, e ancora i corni, otto corni. Meraviglia. E i momenti di pieno orchestrale, metafora delle battaglie dell'eroe, sono talmente travolgenti che sembra ti strappino la pelle di dosso.

Una di quelle sere a teatro che vorresti non finissero mai

Poi il bis, “Vita d'artista” di Johann Strauss figlio, Vienna e la sua civiltà allo stato puro. Sguardi tra noi spettatori: ma è il 1 gennaio, è il concerto di Capodanno?

Una di quelle sere a teatro che vorresti non finissero mai.

Gioa, felicità, adrenalina. La notte a ripensare ai colori dell'orchestra e svegliarsi al mattino ancora con la sensazione del Bello che è entrato in te.


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