Governo, Salvini vince nella lotta dei 4 leader. In 2 mesi sempre più popolare
Il leader della Lega esce trionfante dai sessanta giorni di stallo, superando in popolarità i rivali ed eclissando il vincitore delle elezioni
Dal più vecchio al più giovane, nonché vincitore morale delle elezioni del 4 marzo, Luigi Di Maio. Forte del 32 % dei voti, l'ex valletto dello stadio San Paolo di Napoli, l'enfant prodige di Pomigliano D'Arco, il cenerentolo in grisaglia miracolato dalle fate madrine Beppe Grillo e Davide Casaleggio, ha indossato il vestito per il ballo a corte (leggi Palazzo Chigi), ma si è visto sbarrare le porte del castello dal nemico più grande del M5s: il proporzionale, ben più infido di una sorellastra invidiosa o di una matrigna. Il famigerato proporzionale, non avendo Di Maio raggiunto la maggioranza, lo ha sospinto giocoforza alla ricerca di alleanze con i partiti tradizionali, quelli che fino a poco prima avevano - secondo la vulgata grillina - distrutto l'Italia, rubato tutto, messo in ginocchio i cittadini e così via.
L'apertura del forno pentastellato al Pd, in particolare, quel Pd tempestato di inique offese per tutti i cinque anni della passata legislatura esacerbate oltremodo in campagna elettorale, è stata infine il chiodo sulla bara delle ambizioni di Di Maio, che ha perso via via credibilità anche in seno al suo stesso Movimento. L'insistenza a essere premier a tutti i costi e la chiusura totale a Silvio Berlusconi, compromettendo l'accordo con il Centrodestra, gli ha infine alienato le simpatie di quella parte politica, azzoppandolo di fatto. Oggi Luigi Di Maio è un capetto sgonfiato che ha perso smalto, che ha dimostrato tutta la sua evanescenza politica, e Palazzo Chigi per lui è assai più lontano di quanto non fosse il 5 marzo, visti anche il disastro friulano e la sconfitta in Molise.
Poi abbiamo Matteo Renzi. Dopo otto consultazioni consecutive perse quale segretario del Pd in meno di due anni, dal giugno 2016, e all'alba della sconfitta del Partito Democratico alle elezioni politiche del 4 marzo, l'ex premier dem aveva rassegnato le dimissioni coram populo e sempre in un messaggio alla nazione aveva annunciato che, d'ora in poi, avrebbe fatto il "semplice senatore" zittendosi per due anni.
Meno di due mesi più tardi, Renzi era in prima serata da Fabio Fazio a Che tempo che fa, intento a sconfessare il segretario reggente Maurizio Martina, e a fare esattamente quello per cui una cospicua parte dell'elettorato del Pd ha disertato le urne o ha votato per i cinque stelle, ossia il capetto di turno. In passato Renzi era già tornato su una sua clamorosa decisione annunciata, ovvero quella di lasciare definitivamente la politica in caso di sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016. Anche in quel caso, due mesi dopo circa era da Fabio Fazio a Che tempo che fa, a lasciar intendere che era ben lungi dal rispettare quel "fioretto".
Se l'apparizione in Tv di qualche giorno fa ha galvanizzato i renziani, minaccioso e agguerrito esercito di fedelissimi che - come i grillini - vivono nel culto del leader al quale perdonano qualsiasi cosa, ha scontentato parecchi nel Pd (già lacerato dalle varie disfatte elettorali) e ha rinvigorito l'opinione diffusa secondo la quale Renzi tiene ancora sotto scacco il partito e non ha imparato nulla dai tanti responsi negativi delle urne. Per il suo popolo, con la sua (in)tempestiva ospitata su Rai1 in prime time, "Matteo" ha salvato il Pd dall'abbraccio mortale con il Movimento 5 Stelle.
Per i tanti detrattori, si è soltanto dimostrato per l'ennesima volta il despota che ha affossato il Pd portandolo dal 40 % del 2014 al 18 % del 2018. Detto questo, chi pensava che il 4 marzo 2018 avesse decretato la morte politica di Renzi, ha preso un granchio, e probabilmente l'apparizione da Fazio che prelude al redde rationem nella direzione del Pd prevista per il 3 maggio, e più volte rimandata, è un passo verso la fondazione di un suo partito stile En Marche, come gli chiedono a gran voce, e da tempo, gli aficionados renziani.
(Segue...)