Politica
“Il Pd? A volte è un po’ banderuola. Elezioni Regionali: andrà a finire così"
Parla con Affari il politologo Gianfranco Pasquino: “Alle Regionali? Do per probabile un 3 -3 e possibile un 4-2 per il centrosinistra”
Bolla il pronostico del sette a zero del leader della Lega come “la solita sparata dello sbruffone Salvini” e lo definisce un risultato “improbabile”. Non solo, ma il professore emerito di Scienza politica, Gianfranco Pasquino, intervistato da Affaritaliani.it, si proietta già alla sera del 21 settembre e azzarda: “Do per scontato che il centrosinistra vinca in Campania e in Toscana, li considero risultati quasi sicuri. E non do affatto per perse né le Marche e né la Puglia. Sono contendibili. Almeno questo è ciò che mi dice la mia personale sfera di cristallo”.
Professore, quindi dando i numeri, è possibile un quattro a due per il centrosinistra?
Può benissimo finire 3 a 3, escludendo la Val d’Aosta che è sempre stata una realtà diversa dal resto del Paese. Diciamo che do per probabile un 3 a 3 e per possibile un 4 a 2 per il centrosinistra. Scenario, quest’ultimo, che si realizzerebbe in caso di vittoria, appunto, anche in Puglia e Marche.
In Liguria, dopo l’esperimento fallimentare in Umbria, riparte il laboratorio delle alleanze tra Pd ed M5s. Una sconfitta qui potrebbe causare una battuta d’arresto sul camino delle intese?
Ritengo che nessuna Regione sia un laboratorio perché ciascuna risponde a fattori personali e locali. Detto questo, la Liguria è una sfida difficilissima per il centrosinistra perché qui c’è un presidente, Toti, che è molto popolare e sostanzialmente ha fatto bene. Ecco perché considero l’intesa raggiunta un tentativo apprezzabile, ma non più di un tentativo. Quindi, se il centrosinistra perde, come è probabile, non significa affatto che non debbano più farsi accordi locali tra Pd e Movimento cinque stelle. Dovrebbero, questo sì, partire un po’ prima. Sempre con la consapevolezza che le intese non sono garanzia di vittoria, ma sono garanzia di competitività.
Fa bene quindi Luigi Di Maio che è già proiettato alle comunali del 2021?
Di Maio finalmente agisce in maniera razionale. Peccato però che il M5s abbia già deciso di ricandidare Virginia Raggi a Roma. Questa operazione andava fatta dopo avere raggiunto in qualche modo un accordo con il Pd e non ponendosi subito in posizione antagonista. Comunque, questa è la linea giusta, secondo me, ma senza esagerazioni: sono contrario alle alleanze organiche, bisogna raggiungere intese programmatiche sulle candidature a livello locale.
La Toscana, invece, vede insieme Pd e Italia viva. Una vittoria del centrosinistra potrebbe ringalluzzire Renzi e spingerlo ad alzare la posta di richieste sul governo?
Bisognerà innanzitutto contare i voti di Italia viva e vedere intanto se risulteranno decisivi per la vittoria del candidato di centrosinistra. La Toscana, poi, è la Regione di Renzi, ma anche di Maria Elena Boschi. Dunque, lì devono dimostrare di essere forti. Casomai una lezione arriverebbe se risultassero deboli e si attestassero su percentuali tristi, ad esempio al di sotto del 5 per cento.
Nella prima ipotesi cosa accadrebbe?
Non credo che ci sia da ringalluzzirsi. Magari ci sarà da deprimersi, dipenderà dal risultato. Dopodiché Iv è imprevedibile, come il suo leader. Credo che ci sarà una continuazione della guerriglia. Renzi è in questo momento un guerrigliero che cerca di operare all’interno delle linee amiche, ma non può portare la guerra fino alla sconfitta perché la sconfitta sarebbe anche la sua.
Ma l’esito del voto può minare la stabilità del governo?
Le ripercussioni sul governo si potrebbero avere, ovviamente, se il centrodestra vincesse nelle sette Regioni. Significherebbe che l’esecutivo non è più in sintonia con il Paese. Il governo, allora, dovrebbe elaborare il risultato, ammettere che un problema esiste, ma sottolineare anche che si tratta di elezioni comunque regionali e che in Parlamento ci sono numeri per andare avanti.
Si affaccerebbe con maggiore forza l’ipotesi di un rimpasto?
Forse il governo potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi. Ma attenzione, rimpastare Azzolina mi pare una lezione che il ministro non merita. Rimpastare dovrebbe significare scegliere persone più brave di quelle che già ci sono. Una cosa è sicura.
Quale?
Discuterei di tutto meno che di Mario Draghi che mi pare una specie di briscola chiamata in causa probabilmente anche contro il suo volere e le sue aspettative.
Non sarà che il governo rischia di più proprio con la prova scuola?
La gestione della scuola è una cosa complicatissima. Parliamo di 8 milione di studenti, quasi 2 milioni tra personale scolastico e professori, più i genitori, insomma un esercito di oltre 10 milioni di persone che si muovono. Si tratta di una mobilitazione di massa per cui gli inconvenienti possono sempre presentarsi.
Apriamo il capitolo referendum. Lei si è schierato per il no al taglio dei parlamentari, è così?
Ritengo che il meno non sia sinonimo di meglio. Penso inoltre che non basti tagliare. Bisogna sapere dove poter cucire. Il problema nel nostro Paese risiede nel rapporto tra governo e Parlamento, ma ridurre il numero di parlamentari non lo migliora affatto. Anzi, rischia di rafforzare indebitamente il governo: meno parlamentari significa meno persone in grado di controllare quello che il governo fa, non fa o fa male.
Il 21 settembre si scopriranno le carte. Sapremo se avrà vinto il sì o il no al referendum. Che accadrà l’indomani?
Se vince sì i Cinque stelle esulteranno, mi auguro che eviteranno di ballare sui balconi. Avranno ragione di esultare. Non so, invece, se il Pd potrà permetterselo.
Per quale ragione visto che Zingaretti ha portato il partito sulla linea del sì al taglio?
Perché il sì del Pd si mi pare abbastanza sofferto e opportunistico.
Cosa intende per opportunistico?
Che alcuni nel Partito democratico si comportano in maniera opportunistica. Un opportunismo e un’opportunità che comprendo perché i democratici devono tenere in piedi questo governo, anche alla luce delle sfide che attendono il Paese, con i 209 miliardi da investire. Concordo che non sarebbe il momento più opportuno per una campagna elettorale.
E se vincesse il no?
Sarebbe la sconfitta di una deriva populista del M5s. I Cinque stelle dovranno interrogarsi su questo. Allo stesso modo il Pd dovrà chiedersi cosa non ha funzionato e quanta attenzione ha prestato ai suoi elettori e al dibattito pubblico in generale.
Al di là delle ripercussioni in casa Pd e in casa M5s, il governo Conte potrebbe subirne i contraccolpi?
Non ritengo una eventuale vittoria del no al referendum una delegittimazione del governo. Sarebbe una sconfitta dei parlamentari che hanno votato questa riforma costituzionale. Terrei molto distinto il destino dell’esecutivo dal no e dal sì al taglio del numero dei parlamentari.
Forse l’esecutivo no, ma Zingaretti rischierebbe di salire sul banco degli imputati.
Zingaretti dovrebbe certamente interrogarsi sulla sua capacità di convincere non solo i suoi iscritti, ma anche i suoi elettori, chiedersi se davvero il Pd ha fatto una campagna elettorale seria - non vedo i manifesti del partito per il sì - e con quanto impegno ha sostenuto davvero questa riforma.
E’ probabile un assalto alla sua segreteria?
Aprire questa partita sarebbe fuori luogo. Zingaretti è stato scelto con primarie e deve andare avanti fino alla fine del mandato. E, poi, gli sfidanti sarebbero esponenti come Bonaccini perché ha vinto le elezioni in Emilia Romagna? Ricordiamo che era presidente uscente e poi anche che l’Emilia Romagna è la Regione rossa per eccellenza. Insomma, non mi sembra un titolo sufficiente per aspirare alla segreteria. Quanto agli altri eventuali aspiranti, aspettino il loro turno e chiedano le primarie.
Da Roberto Saviano sono arrivate parole pesanti contro il Pd. Secondo lo scrittore è privo di identità politica, è “vapore acqueo”. Lei cosa ne pensa?
Su alcune tematiche il Pd sembra una banderuola. Detto questo, un po’ Saviano esagera sempre, ma io lo capisco. La sua è una questione di stile e forse anche una scelta e cioè quella di voler acutizzare le situazioni. Una cosa però va detta.
Quale?
Il Pd, dal 2007 a oggi, non ha elaborato una cultura politica di riferimento degna di questo nome. E quindi è vagamente democratico, vagamente progressista e vagamente riformista. Un male generale nel contesto italiano. L’unica che può dire di avere una cultura politica, infatti, è Giorgia Meloni. Persino i leghisti hanno attenuato la loro visione della Padania. Trenta anni fa c’era Gianfranco Miglio che aveva idee forti, oggi chi sono gli intellettuali di riferimento? Borghi e Bagnai?