Cosa non vuole raccontare la retorica protezionista
La storia della globalizzazione ha il suo anno zero nel 2008. Prima della crisi, infatti, eravamo abituati a ritenere che le interconnessioni globali di denaro, merci e persone contribuissero all’aumento della ricchezza e alla sua diffusione. Dopo la crisi il mondo si è innamorato della “cultura della barricata”, un trend di autarchie e infatuazioni protezionistiche che ha segnato un processo sempre più incisivo di de-globalizzazione.
Dalla fine del 2008, nonostante molti Paesi abbiano assicurato di non volere una guerra commerciale simile a quella che portò alla Seconda Guerra Mondiale, tutti gli Stati hanno imposto centinaia di barriere commerciali tariffarie e non tariffarie. Barriere fisiche, barriere fiscali, barriere tecnologiche, dazi e licenze restrittive, e infine barriere invisibili, come i sussidi alle esportazioni. Tra il 2008 e il 2015, Francia, Germania, Italia e Regno Unito hanno varato più di duecento nuove barricate commerciali ciascuno; la Russia e l’India circa cinquecento; gli Stati Uniti circa quattrocento (fonte OCSE).
È evidente che la crisi che sta vivendo l’apertura globalizzata dei mercati è il frutto di dinamiche comunque profonde, ma vi è tutta una narrativa che la retorica protezionistica sceglie di non raccontare. Grazie agli effetti della globalizzazione, dal 1990 al 2015 le persone che soffrono la fame nel mondo sono scese dal miliardo ad 800 milioni, nonostante una crescita demografica di 2 miliardi: un calo percentuale che va dal 23,3% al 12,9% (dati FAO e World Food Programme). Nello stesso periodo anche il numero delle persone che vivono al di sotto della soglia di povertà sono diminuite in maniera importante: da circa 1,8 miliardi a circa 700 milioni (dati World Bank).
Sono fresche di poche ore le parole del Premier cinese Li Keqiang, al World Economic Forum 2017, “Dobbiamo strenuamente sostenere il libero commercio, come fondamento economico della globalizzazione e vettore di benefici per tutti i Paesi”.
Ma nonostante i numeri, la popolarità della globalizzazione e del libero commercio continua a scendere. È sufficiente parlare con un lavoratore giustamente in difficoltà che abbia perso l’impiego e fare di tutta l’erba un fascio, senza mai approfondire la causa di un evento, illudendosi e illudendo dolosamente che la “cultura della barricata” possa favorire le fasce meno abbienti.
Sono stati da poco celebrati i 60 anni della firma dei Trattati di Roma, forse è utile ricordare un passaggio importante della storia del nostro Paese. Nel 1958 (un anno dopo la firma del Trattato di Roma) il PIL crebbe del 6,6%, gli scambi registrarono per la prima volta un saldo attivo, la bilancia dei pagamenti registrò un avanzo nel 1959 e aumentarono gli investimenti esteri. La concorrenza europea costrinse le nostre imprese ad accelerare sul versante della competitività.
I numeri e la storia non ci smentiscono, il protezionismo non genera ricchezza bensì riduce drammaticamente gli standard di vita dei cittadini. Per queste ragioni occorre raccogliere la sfida attuale e rilanciare con forza l’importanza della globalizzazione e del commercio internazionale per impedire che le spinte protezionistiche rallentino un processo di crescita e sviluppo.
Benedetta Fiani