Direzione? Italia!
E’ TEMPO DI RINEGOZIARE TUTTO, NON DI CELEBRARE. SE LA BARCA AFFONDA, LA PRIORITA’ NON E’ LA VELOCITA’ DI CROCIERA…
Si tiene oggi a Roma il convegno di Direzione Italia. Lontani dalle celebrazioni, ribadiamo l’obiettivo della rinegoziazione. Diversamente dagli euroayatollah e pure dagli eurosfascisti senza strategia. La rinegoziazione come proposta terza, seria, credibile, coraggiosa.
Introdotti e coordinati da me, intervengono: Roberto Caporale (economista e manager), Lorenzo Castellani (ricercatore di scienze politiche), Luigi Di Gregorio (docente di scienze politiche), Francesco Galietti (Policy Sonar), Antonio Guglielmi (Mediobanca), Sergio Vento (ambasciatore). Previsto anche un contributo scritto di Giuseppe Pennisi (economista).
Conclude i lavori Raffaele Fitto, europarlamentare, leader Direzione Italia.
Ecco il documento di Direzione Italia che costituisce la base della discussione
UE: E’ TEMPO DI RINEGOZIARE TUTTO, NON DI CELEBRARE
SE LA BARCA AFFONDA, LA PRIORITA’ NON E’ LA VELOCITA’ DI CROCIERA…
Terminate le celebrazioni dell’anniversario dei Trattati di Roma, è giunto il momento di ragionare in modo lucido sul presente e sul futuro.
E soprattutto di uscire da una specie di “strategia del diniego”: negare l’esistenza di problemi. Se la barca affonda, la priorità non dovrebbe essere discutere sulla velocità di crociera.
IL SONDAGGIO
Partiamo da un recente sondaggio Index. Il 74,3% degli italiani è insoddisfatto del funzionamento di questa Unione Europea (i soddisfatti sono appena il 16,4%). E il 60,3% sarebbe favorevole all’ipotesi di riscrivere regole e trattati europei (i contrari sarebbero solo il 17,3%).
LA SITUAZIONE E LA NUOVA DIREZIONE NECESSARIA
La fotografia dell’attuale Ue è quella di un sistema non democratico, non efficiente, non trasparente, costoso, capace essenzialmente di generare sfiducia. In pochi decenni, la linea PPE-PSE ha ferito la speranza europea nella mente e nel cuore di una larga maggioranza dei cittadini.
Già nei lunghi mesi della rinegoziazione inglese, prima del referendum del 23 giugno 2016, l’Ue e la stessa Italia hanno mancato l’occasione di sostenere il processo di cambiamento auspicato da Londra: se l’Ue avesse cambiato le sue regole in modo visibile e convincente, gli inglesi non sarebbero stati gli unici a giovarsene, ma ne avrebbero tratto giovamento tutti i Paesi oggi penalizzati dall’asse Berlino-Parigi-Bruxelles, a cominciare da noi.
Se in tutta Europa avanza un’ondata di rigetto, occorre farsi qualche domanda sulle ragioni di questo fenomeno. Colpevolizzare gli elettori non è mai saggio. Piuttosto, è necessario interrogarsi sull’inefficienza dell’Unione che si continua a celebrare.
L’attuale Ue ha mostrato di non saper fronteggiare né emergenze di media gravità (il caso della Grecia), né emergenze di massima gravità (il caso immigrazione), né l’ordinaria sfida dell’uscita dalla crisi economica e del ritorno a una crescita sostenuta e forte.
L’Europa ha bisogno di un nuovo approccio. Non si può reagire a questa crisi con la consueta giaculatoria “ci vuole più Europa”: è esattamente ciò che non ha funzionato in questi anni.
Così come non ha funzionato la pretesa di imporre a tutti (dalla Finlandia al Portogallo) le stesse regole, in una logica di omogeneità forzata.
In alcuni casi (si pensi all’Inghilterra) c’è stata la saggezza di offrire al dissenso dei cittadini uno sbocco creativo e costruttivo. Naturalmente, l'Inghilterra disponeva e dispone di condizioni peculiari (economia forte, moneta solida, ruolo geopolitico autonomo e autorevole), e inoltre ha potuto far ricorso allo strumento referendario, di fatto impraticabile in Italia. Altrove, in Europa continentale, prevalgono invece risposte più di rottura, meno orientate a una pars construens.
L’unica soluzione è dunque invertire la rotta, immaginando un’Europa che faccia meno cose e le faccia meglio.
Quindi:
• più competizione fiscale tra Stati, affinché i sistemi a tasse e spesa bassa siano da modello per gli altri;
• maggiore autonomia e più sussidiarietà, con decisioni prese dal livello più vicino ai cittadini, non dal più lontano;
• ridurre la pressione fiscale e burocratica.
Mai più deve verificarsi quanto è accaduto nella decisione dell’autunno scorso presa da Bruxelles contro l’Irlanda: con un organo mai eletto da nessuno (la Commissione Ue) che ha preteso di dettare regole fiscali, per giunta retroattive, a un governo democraticamente eletto. Per quella via, si preclude la competizione fiscale (ad esempio, qualunque idea di fiscalità di vantaggio): ed è un danno in primo luogo per le aree e i territori più deboli, che ne avrebbero bisogno, e che saranno invece ridotti a sperare solo nelle concessioni di Berlino e Bruxelles.
Tuttavia, non ci nascondiamo il vero problema italiano: il macigno del debito pubblico, accumulato nella Prima Repubblica e mai seriamente affrontato dalla Seconda, fonte di una nostra strutturale condizione di debolezza (e non è certo colpa di altri). A causa di questo fardello, serve un governo forte e autorevole per trattare qualunque scelta rispetto a Bruxelles: se e come permanere e a quali condizioni. Altrimenti, con governi fragili e senza credibilità, ogni ipotesi sarebbe disastrosa; se uscissimo in modo non concordato, saremmo travolti; se rimanessimo con le regole attuali, continueremmo ad essere soffocati.
La nostra adesione alla famiglia conservatrice e riformista europea è un’opportunità: quella di contribuire a una rete anglo-mediterranea (che coinvolga anche rilevanti Paesi dell’Est europeo) politicamente alternativa all’asse PPE-PSE oggi egemone a Berlino-Bruxelles.
In questa chiave, e con un adeguato sistema di dialoghi e alleanze, si inserisce la nostra proposta di rinegoziazione: no a chi accetta meccanicamente i vincoli e le inefficienze esistenti oggi in Europa, e no a uscite dall’euro e salti nel buio non concordati e pianificati.
In particolare rispetto al tema dell’euro, occorre evitare scorciatoie e avventure. Non è vero che gli italiani non abbiano nulla da perdere. Un popolo di proprietari di case e di risparmiatori avrebbe tantissimo da perdere in caso di uscita caotica o di mosse avventate, che sarebbero punite molto duramente dai mercati. E quanto al debito, non si può improvvisare, né il problema si risolve evocando confuse prospettive di doppia moneta. Serve a poco indicare rinascite o “palingenesi” future, se nell’immediato dovessero comportare danni devastanti ai risparmiatori italiani.
LE PROPOSTE
1. Avviare una rinegoziazione di tutte le regole e tutti i trattati europei, nessuno escluso.
2. Stabilire che le regole europee naturalmente valgano, ma possano essere messe in discussione da una decisione del Parlamento nazionale, a determinate condizioni. Quindi, stabilire l’opportunità per i Parlamenti (o eventualmente per la Corte Costituzionale, come accade in Germania) di respingere ciò che arriva da Bruxelles. L’Ue deve essere flessibile: ogni membro deve poter aderire o no ai vari progetti, a seconda del fatto che li condivida oppure no.
3. No ad altre cessioni di sovranità economica e fiscale. Sarebbe la gabbia finale: un pilota automatico a Bruxelles-Berlino imposto anche qui. No in particolare a un Ministro delle Finanze unico europeo.
4. Maggiore sussidiarietà: le decisioni politiche e normative devono essere adottate al livello più adatto per il raggiungimento degli obiettivi, e quindi il più possibile vicino ai cittadini.