Palazzi & potere

’Il virus siamo noi’’: intervista al Premio Strega Sandro Veronesi

Mariagloria Fontana

’Il virus siamo noi’’: intervista al Premio Strega Sandro Veronesi

Lo scrittore Sandro Veronesi, tradotto in venti Paesi nel mondo, già vincitore del Premio Strega nel 2006 con il romanzo Caos Calmo e attualmente nella dozzina del Premio Strega 2020 con il suo ultimo romanzo, Il Colibrì (La Nave di Teseo), ci parla del suo libro, di verità della letteratura e del difficile periodo che stiamo vivendo.

A Marco Carrera, protagonista del tuo ultimo romanzo, accadono nel corso di una intera esistenza tanti lutti e accadimenti tragici, ma lui sembra riuscire non soccombere mai del tutto. Come si sopravvive al dolore quando ti lacera dentro?

Si tratta di una vita e dunque ci sono tanti episodi, non solo la morte ma anche altre forme di dolore e poi naturalmente ci sono anche momenti di gioia. È una vita abbastanza ordinaria se non fosse che c’è una dose di perdita maggiore del normale, ma potrebbe succedere a ognuno di noi. Come si fa a convivere con il dolore? Marco fa una cosa semplice, che poi è quella che fa il colibrì, inteso come uccello.  Davanti a una cosa grande, anche la persona piccola deve farsi grande. Il colibrì, che pesa pochi grammi, potrebbe appoggiarsi su qualunque stelo di foglia e la foglia lo reggerebbe, invece per suggere il nettare dei fiori lui fa da sé, fa da solo. Rimane fermo in volo, muovendo le ali ottanta volte al secondo, ed è l’unico uccello in grado di fare questa cosa, non si è ancora capito perché abbia questo talento, perché non si accontenti come gli altri uccelli di appoggiarsi sulla foglia, perché voglia fare da solo. Questo suo fare da solo, pur nella sua piccolezza nella sua fragilità, ne ha fatto un simbolo nella cosmogonia di tante civiltà. Per esempio, gli Aztechi che erano un popolo di guerrieri che prediligevano la morte in guerra piuttosto che la morte di vecchiaia, che davano ai posteri una collocazione nel paradiso o nell’inferno a seconda di come erano morti e non di come erano vissuti, il massimo del premio che davano ai morti in battaglia e alle creature sacrificate nei sacrifici umani era di reincarnarsi in un colibrì. Allora, il simbolo della parola che oggi è anche un po’ troppo usata, a maggior ragione in questi tempi assurdi che stiamo vivendo, ‘’resilienza’’, è proprio il colibrì che fa la sua parte, che sembra minuscola, che sembra irrilevante.  Invece, è la dimostrazione di una capacità di tenere duro, di non mollare, che lo fa grande. Questo è alla portata di tutti noi, non c’è bisogno di essere dei grandi uomini per essere grandi di fronte alle avversità.

In questo senso il colibrì è profondamente attuale.

In tempi come questi, che non erano previsti naturalmente quando stavo scrivendo il romanzo, nei quali abbiamo l’occasione di trovare tutti dentro di noi questa grandezza che neanche pensavamo di possedere, perché grande è la prova alla quale veniamo chiamati.

‘’Lo sai dunque che questa è la descrizione del nostro amore, che io non sia mai dove sei tu, e tu non sia mai dove sono io?’’ Dei versi bellissimi di Giorgio Manganelli che Luisa, l’amore della vita di Marco, gli scrive e gli dedica. In questa assenza, l’uno per l’altra rappresentano l’amore incompiuto per eccellenza, quindi forse l’amore eterno, o un’illusione d’amore, un topos letterario, come Daisy per Jay Gatsby, un’idea impossibile dell’amore, un’aspirazione alla perfezione che non si compie mai.

Tra gli amori impossibili più vicini, più simili, a quello di Marco Carrera per Luisa c’è quello del Dottor Zivago di Boris Pasternack, che è il suo libro principale, il suo preferito. Non è un caso che Marco sia un oftalmologo, il medico degli occhi, e Zivago sia un oculista. Quando Marco sceglie la facoltà di medicina da ragazzo la sceglie anche in base a questa passione per Zivago che in qualche modo lo influenza nel portare avanti una condizione simile a quella di Zivago con Lara, un amore quasi del tutto non consumato. Però c’è un fatto che in un certo senso giustifica tutto. Marco e Laura, da giovanissimi, innamoratissimi, e già divisi da una inimicizia delle famiglie, che quando sei molto giovane conta, decidono di passare una notte insieme, quella che io nella mia testa chiamo ‘’la notte dei succhiotti’’, perché la passano sulla spiaggia come si passa da ragazzi, non è sesso, è un baciarsi. In quella notte, tuttavia, accade un fatto tragico, quasi come se fosse collegato, e lo è, perché se Marco non fosse stato lì a baciarsi con Laura, tanto amata, sarebbe potuto essere a casa a proteggere sua sorella. Questo è un po’ uno stigma che maledice il loro contatto, e quindi maledice il consumarlo, condanna questo amore, quindi mantiene l’amore sul piano platonico, sul piano di due deficienti, perché si vedono negli alberghi e non si toccano. Naturalmente, le rispettive famiglie vanno al diavolo lo stesso. Però è vero che non essendo consumato questo amore continua a rimanere tale e puro fino all’ultima pagina. Ed è anche un segnale di speranza, Marco ne passa tante, subisce tante privazioni, però poi alla fine il suo amore ce l’ha davanti agli occhi, addirittura riceve un bacio.

 

Marina, la moglie di Marco, omette, tace, finge. Però Marco ha un’intuizione all’inizio della loro storia, dell’incontro, una sorta di illuminazione, una luce accesa che gli rivela da subito già tutto, di cui tu racconti che ci fa vedere chiaro sin all’inizio di ogni relazione come andrà, cosa succederà, ma che poi quella luce dura un attimo e si spegne, e per tutto il tempo a seguire la ignoriamo, come fa Marco. Perché?

Perché altrimenti non riusciremmo a vivere. Un destino di cui conosciamo l’esito non riusciremmo a sostenerlo e siccome però quel che sarà di noi, esattamente quando e come moriremo non lo potremo mai sapere, ma quel che sarà di me e te lo vediamo subito quando ci incontriamo, nel momento in cui scocca o non scocca una scintilla, d’amore, di amicizia, in quel momento si illumina tutto e si vedono pregi e difetti di quella persona e anche come andrà a finire. Però non si può vivere con quella luce lì, sarebbe abbagliante, ci impedirebbe di vivere le minuzie, le piccole cose che sono quelle che riempiono la vita della gente e soprattutto se c’è qualcosa di brutto in quello che vediamo noi non vogliamo portarci dietro questa consapevolezza, la rimuoviamo e cerchiamo di vivere meglio che si può fino a che non si arriva là dove sin dall’inizio abbiamo saputo per un attimo che saremmo arrivati, ma in maniera molto umana, assolutamente irreprensibile, abbiamo dopo un po’ cessato di saperlo. Perché altrimenti non avremmo potuto vivere.

Sei laureato in architettura, sembra un fatto accidentale, invece c’è una struttura complessa che compone questo romanzo e, in generale, il tuo stile di scrittura. Quanto ti ha formato quello studio?

Io non capisco come faccia la gente a vivere, non dico a scrivere, senza aver studiato architettura, perché è stato uno studio talmente importante per me che io non saprei come fare ad alzarmi la mattina e affrontare il mondo senza quello che mi ha dato quello studio. Dopodiché però non ho mai provato a fare l’architetto, perché il mio sogno era fare lo scrittore e nel casino dei diciotto anni ho scelto una facoltà e andare all’università era un privilegio e non volevo giocarmelo perché ero indeciso e ho fatto la cosa che mi dava più possibilità di lavorare, di avere una professione, però poi quando ho avuto in mano il pezzo di carta era proprio quel mestiere mi faceva paura perché io volevo scrivere.  Però avevo imparato il modo di vedere il mondo, di leggere il rapporto costante tra l’uomo e lo spazio, che è quello che ti insegnano a guardare e a leggere a architettura; quello è rimasto per sempre dentro di me. E certamente non starebbero in piedi i miei romanzi se non avessi studiato architettura. Sono sbalordito che esistano scrittori che riescano a far star su delle storie senza aver studiato architettura. Una volta un mio amico scrittore, Giorgio Montefoschi, anche lui Premio Strega, mi disse : io non capisco come faccia la gente a non leggere il Messaggero. Io da toscano questa cosa l’ho tradotta subito nella lettura de La Nazione, era strutturale e capii che dal punto di vista di un romano era connaturato.

 

Nella privazione apprezziamo cose che davamo per scontate, quando torneranno gli daremo un valore diverso o torneremo quelli di prima?

Daremo un valore diverso alle cose. Io non sono di quelli che dicono che questo Coronavirus ci farà anche del bene, ci sta facendo del male e sarà quasi solo male, però saremo costretti a ripensare tante cose, perché dopo, quando ci sarà il dopo che tutti stiamo aspettando chiusi in casa, le cose non saranno più come prima e dovremo cambiare, dovremo concepirle diversamente, non solo e soltanto quanto e come ci siamo scoperti indifesi, e non credevamo di esserlo, ma anche su quello che possiamo combinare di buono o di cattivo, perché quello che sta facendo il virus contro di noi, noi lo stiamo facendo, non tutti ma molti, al pianeta, alla Terra. Noi siamo un virus. Se la nostra civiltà non riesce a concepire un tratto di armonia diventa aggressiva come un virus e come noi stiamo lottando per liberarci dal coronavirus, la natura si ribellerà a noi.

Quest’anno, dopo aver vinto il Premio Strega nel 2006, sei di nuovo fra i dodici semifinalisti che partecipano al prestigioso premio letterario, come lo stai vivendo?

Il pensiero del premio Strega, con tutto il rispetto che ho per questo premio tanto autorevole, è un po’ sfocato al momento.

Qual è il rapporto tra verità e letteratura?

Il discorso sulla verità della letteratura è molto importante, perché anche queste cose che ci siamo appena detti la letteratura le ha già scritte tutte. Queste verità sono state già distillate perfino dalla fantascienza, perché come genere ha molto frequentato avvenimenti di epoche immaginarie, avvenimenti come quelli che stiamo vivendo oggi, virus, pandemia, catastrofi ecc., Da lì, i grandi scrittori, ce ne sono grandissimi anche di fantascienza, hanno formulato un pensiero, quel pensiero è la verità che non si può dire se sei un giornalista, se sei uno storico, la puoi dire soltanto se ti inventi una storia, se ti inventi le balle. Se ti inventi le balle puoi dire certe verità, se ti attieni ai documenti non le puoi dire e quindi sei lontano dalla verità. Io sono uno di quelli che sostiene che non è una questione di tempo, di quale tempo: il diciottesimo, il diciannovesimo, il ventesimo, il ventunesimo secolo? Il romanzo è il luogo della verità, dove si può trovare più verità, poi bisogna vedere che romanzo è, chi è l’autore, ma poiché si tratta di un mondo parallelo, di un’altra realtà, si può mettere tutta la verità che si vuole senza doversi giustificare.