Politica

L’empasse sulle spese militari e le sorti del governo

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Spese militari, tutto verrà rinviato a fine anno alla Legge di Bilancio

L’empasse sulle spese militari e le sorti del governo

Nella serata del 28 marzo il governo, nella persona del ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, ha cercato un’intesa coi gruppi parlamentari di Palazzo Madama – e con le due commissioni Esteri/Difesa – per un ordine del giorno condiviso che impegnasse l’esecutivo ad aumentare la spesa militare nella misura del 2% del Pil. L’intesa non è stata trovata. Da una parte la contrarietà del M5S, dall’altra la mediazione di Pd, Lega e Forza Italia che però non è riuscita. L’unico ordine del giorno in questo senso finora esistente è quello del partito di opposizione, Fratelli d’Italia, col quale il governo si è detto d’accordo, ma che i partiti di maggioranza non possono votare per le divisioni al loro interno. Una situazione paradossale che vede il governo, sostenuto in Parlamento da una maggioranza bulgara, essere d’accordo con l’opposizione e non con il partito di maggioranza relativa.

Le cose stanno in questi termini. Entro il 26 aprile il Parlamento è chiamato a convertire in legge il decreto-legge n. 14 del 25 febbraio 2022 in materia di disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina (il cosiddetto “decreto-Ucraina”), che da un lato prevede l’invio di armi al Paese in guerra con la Russia e dall’altro un generico impegno all’aumento della spesa militare al 2% del Pil, senza tuttavia specificarne modalità e tempistiche. Lo scontro politico verte proprio su questo punto, cioè su come e quando avverrà questo aumento. Il “decreto Ucraina” è già passato dal voto favorevole della Camera, mentre in Senato ha subìto una battuta di arresto, tanto è vero che il ministro D’Incà ha tentato una mediazione proprio coi gruppi parlamentari di Palazzo Madama. Le soluzioni discusse nella serata del 28 marzo sono due: un ordine del giorno condiviso tra i gruppi parlamentari di maggioranza o un rinvio della questione all’interno della nota di aggiornamento al Def (documento di programmazione economico-finanziaria) che va presentata dal governo entro il 30 aprile, ma su nessuna delle due si è trovato un accordo nella maggioranza per la ferma contrarietà espressa dal M5S.

A sparigliare le carte è stato proprio Giuseppe Conte, che nei giorni scorsi ha dichiarato: “la soglia del 2% è frutto di un impegno preso nel 2014 che non può essere cancellato e che io stesso non ho rinnegato quando ero Presidente del consiglio. Però mi sono impegnato a rivedere i criteri di calcolo in modo da tenere conto anche dei costi politici e immateriali che comportano le nostre missioni all’estero […]. Dopo due anni di pandemia, e con la recessione che si farà sentire sulla pelle di famiglie e imprese, non si capisce per quale motivo le priorità debbano essere le spese militari”.  Conte non si dice contrario ma non vuole che se ne faccia una priorità come invece intende fare Draghi, il quale in linea con quanto richiesto dalla Nato, ha già annunciato che la spesa militare in bilancio aumenterà dall’1,54 al 2% del Pil già quest’anno, una richiesta che la Nato avanza sin dal 2014 ma che finora non era mai avvenuta, anche perché il termine per farlo era stato fissato al 2024. Tuttavia, questo è innegabile, con la guerra Russia-Ucraina scoppiata il 24 febbraio lo scenario è profondamente mutato.

La palla è dunque nelle mani del Presidente del consiglio, che peraltro fino a questo momento se ne è sempre fregato del Parlamento, legiferando a colpi di decreti-legge. Ma la questione è parecchio delicata perché il M5S è il partito di maggioranza relativa in entrambe le Camere e senza i suoi voti, oltre ad un problema di numeri, si apre un problema politico visto che è anche partito di governo. Problema politico che si preannuncia scottante già nelle prossime settimane con la conversione in legge da parte del Senato del “decreto Ucraina”. Se il M5S apportasse modifiche in commissione, il governo potrebbe valutare di intervenire a gamba tesa quando il provvedimento arriverà in aula, presentando un maxiemendamento e ponendovi la questione di fiducia. A quel punto l’esecutivo, forte del voto di fiducia incassato (non crediamo realistico un voto contrario del M5S), provvederà all’aumento delle spese militari – senza neppure un ordine del giorno in tal senso da parte delle Camere – con un successivo decreto-legge (che aprirebbe una nuova battaglia politica all’interno della maggioranza) oppure con la legge di bilancio a fine anno, in modo tale da rinviare a fine legislatura il problema politico. Stiamo parlando di un aumento complessivo di circa 36 miliardi di euro in più da destinare esclusivamente alla spesa militare. Soldi per partite iva e pensionati non ce ne sono, per missili e cannoni invece si trovano facilmente.

Allo stato attuale le soluzioni per il Presidente del consiglio sono due: trovare un accordo politico con Conte o andare allo scontro in Parlamento con la questione di fiducia. Uno scontro non serve ad entrambi.  È pur vero che Conte è stato riconfermato sulla piattaforma Rousseau col 94,2% dei voti degli iscritti, ma c’è da dire che questa volta – rispetto alla volta precedente – l’ex Presidente del consiglio ha incassato circa diecimila voti in meno e come che sia la sua posizione all’interno dei gruppi parlamentari resta debole. Se andasse allo scontro con Draghi il M5s si spaccherebbe.  

In questa impasse Salvini resta alla finestra perché sta aspettando che il governo fissi la data del referendum abrogativo sulla giustizia (occasione di riscatto per il leader della Lega), cercando di portare a casa l’accorpamento ballottaggi amministrative – referendum, quindi al momento tace. Ma una volta incassata la data, se vorrà recuperare una parte dei voti persi nell’ultimo anno, dovrà giocare una partita più ampia e su più fronti, e qui le posizioni di Conte contrarie al governo in materia di spese militari, giustizia e legislazione pandemica potrebbero tornare utili.

Realisticamente crediamo però che alla fine la maggioranza troverà una quadra: Draghi metterà la fiducia sul “decreto Ucraina” e la incasserà anche grazie ai voti del M5S (che esprimerà il suo voto mantenendo una riserva critica sotto l’aspetto politico), mentre Conte otterrà che l’aumento della spesa militare nella misura del 2% del Pil avvenga concretamente solo con la legge di bilancio (a fine anno), in modo tale da potersi giocare la partita più avanti – chiedendo che lo stanziamento dei 36 miliardi avvenga gradualmente entro il 2024, come peraltro previsto dagli accordi Nato – facendo sentire il fiato sul collo di Draghi fino al termine della legislatura. Insomma, alla fine troveranno una soluzione “all’italiana” per cui non vincerà e non perderà nessuno.

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