Politica

Taglio parlamentari? Un errore. Solo le élite faranno politica e aumento costi

Antonio Amorosi

L’idea potrebbe sembrare giusta ma è un errore madornale. Il taglio parlamentari del M5S rischia di ridurre la democrazia e i costi che alla lunga esploderanno.

La teoria delle élite, elaborata a fine Ottocento dal grande politologo italiano Gaetano Mosca e poi ampliata da sociologi come Vilfredo Pareto e da Robert Michels, spiegava che le società sono governate da strutture oligarchiche che decidono per tutti. La teoria, in contrasto con quelle socialiste e liberali del tempo, in soldoni spiegava come in ogni società una minoranza, solitamente piccola ma organizzata, esercita il proprio dominio sul resto della popolazione e con la subordinazione di quest’ultima alimenta i propri privilegi. Oggi questa minoranza noi la chiamiamo “casta” politica (anche se ce ne sono altre di caste). 

 

Le élite politiche del nostro Paese, i parlamentari, rischiano di essere sempre più tali con il nuovo disegno di legge costituzionale voluto dal M5S che intende ridurre i deputati e portarli dai 630 attuali a 400 e i senatori dai 315 a 200, sostenendo che il parlamento costa troppo, i parlamentari sono in numero eccessivo e la burocrazia legislativa è farraginosa e inefficiente. Ma andiamo a vedere perché queste affermazioni rischiano di essere solo pericolose e prive di realtà.

 

Il numero dei parlamentari italiano è determinato dalla Costituzione, 630 deputati e 315 senatori, questo dopo la revisione costituzionale del 1963 che cercava di definire un rapporto minimo e più rappresentativo possibile tra cittadini ed eletti (nel 1963 la popolazione italiana era di 51 milioni di abitanti, oggi è di circa 60 milioni). In rapporto alla popolazione, oggi abbiamo un deputato ogni 96.000 abitanti e un senatore ogni 192.000, scrive un rapporto del Centro Studi del Senato. Servono cioè 96.000 voti dei cittadini alla Camera e 192.000 al Senato per eleggere un deputato e un senatore. La riforma per il taglio dei parlamentari, che arriverà a Montecitorio il 7 ottobre con il voto fissato il giorno dopo, è giunta alla quarta e ultima lettura. Una diminuzione così netta però aumenterà la distanza, se non bastasse quella attuale, tra elettori e parlamentari. Con i nuovi numeri, 400 deputati e 200 senatori, ci vorranno circa 151.000 voti per eleggere un deputato e più di 300.000 per un senatore. Il disastro si materializza con la riduzione dei livelli minimi di rappresentatività delle Camere, un rafforzamento dei partiti e dei loro capi che avranno un numero sempre minore di parlamentari da “comandare”, riducendo al minimo la già limitata libertà di questi ultimi e allontanandoli anche dai territori (che dovrebbero rappresentare) perché saranno più vasti e complessi di prima.

 

E tutto questo per un taglio economico minimo. Secondo i dati del parlamento il taglio porterebbe ad un risparmio di 60 milioni di euro l’anno, 57 milioni per l’Osservatorio di Carlo Cottarelli (secondo i grillini ci sarà un risparmio di 100.000 milioni di euro ma il dato non è in questo caso supportato da documenti provanti). I 50-60 milioni annui è anche il numero che venne indicato come risparmio possibile con la riforma costituzionale voluta da Renzi-Boschi, che aveva la stessa riduzione parlamentare, ma poi mai portata a termine. Un risparmio minimo quindi perché la riforma non incide sui costi del personale delle Camere che resta intatto, né sulle spese correnti di funzionamento delle stesse, tanto meno sui trattamenti previdenziali di deputati e senatori, se non si analizza il dato sul lungo e lunghissimo periodo.

Per capire la portata minima dei risparmi, 50-60 milioni di euro annui, basti considerare che solo il reddito di cittadinanza annuo costa allo Stato intorno ai 6,6 miliardi di euro.

 

In più il taglio non renderà più veloce né efficiente il lavoro del parlamento, se mai questo termine avesse un senso per la politica. Il taglio non smuove di una virgola i meccanismi istituzionali, non intacca il bicameralismo perfetto Camera/Senato, non modifica i rapporti tra parlamento e governo, tra governo e Regioni, né interviene sui tempi di approvazione delle leggi che continueranno a durare anni. Ma la riforma fa una cosa particolare: aumenta il carico di lavoro per il singolo parlamentare e per il suo staff. 

 

“A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”, diceva Giulio Andreotti. Infatti l’effetto di questo aumento di carico di lavoro potrebbe proprio procurare il male peggiore.Non sarebbe infatti strano che prima o poi lo stesso parlamento e i governi si sveglino e chiedano più risorse per potere assumere personale e meglio rappresentare le circoscrizioni in cui sono eletti, diventatate tanto vaste. Una possibilità che seguendo l’ordine delle cose italiane non sembra un rischio ma una certezza. Ovviamente personale che continuerà in buona  parte ad essere assunto “in nero”, come nella migliore tradizione dei collaboratori dei parlamentari del Belpaese. Un aumento dei clientes di cui si sente la mancanza.