I lampioni del lungomare di Bari 'La luce dell’Est' e il Pericle contemporaneo
Le interviste ai lampioni del Lungomare di Bari di Antonio V. Gelormini e "La luce dell'Est"
Intervistare i lampioni del Lungomare di Bari. Era un gioco che mi piaceva fare, per ingannare l’attesa prima dell’apertura del portone della Facoltà di Economia e Commercio a largo Fraccacreta. Mi divertivo ad immaginare il racconto che ciascuno di essi potesse farmi circa quanto accadeva sotto le loro lanterne ‘tetragone’: sentinelle silenziose, che si illuminano al crepuscolo e non cessano di farlo all’aurora, perché l’alba barese le accende come fari ogni santa mattina.
Ad uno in particolare ero più legato, il lampione n. 152 a partire da S. Girolamo, perché conquistato - il primo giorno di lezioni - dalla scritta in rosso sulla sua base di pietra bianca: “Luce dell’Est”. Era il titolo di una canzone di Lucio Battisti, ma sotto quel lampione e di fronte a quell’orizzonte assumeva riflessi filosofici, letterari e subliminali straordinariamente brillanti, capaci di accendere forti “Emozioni”.
Quella mattina di fine novembre, rimasi un po’ contrariato nel trovarlo “occupato”. Ad esso appoggiato c’era un uomo distinto, col cappello, gli occhiali, un impermeabile chiaro e una cartella nella mano destra. Fissava l’orizzonte largo, particolarmente profondo quel giorno, illuminato da una luce accecante, che faceva risaltare il blu cobalto di un cielo terso che faceva tutt’uno col mare leggermente increspato, mentre diffondeva il suo tipico profumo pungente.
In facoltà, quel giorno del 1975, arrivò Enrico Dalfino. Tornava a Bari, da Roma, per insegnare Diritto Pubblico, e non ci misi molto a riconoscere la sagoma che qualche ora prima avevo visto sotto il mio lampione preferito. Il suo arrivo fu come una sana folata rigeneratrice.
Sin dal primo istante, sorriso e affabilità conquistarono l’attenzione e la stima della nutritissima schiera di discenti. Bisognava prenotare i posti in quella spoglia aula magna trasformata nella più accessibile delle “Agorà”, in cui nemmeno la più noiosa delle mosche osava disturbare la lezione di quel "Pericle contemporaneo", al centro di un improvvisato ma più “democratico” anfiteatro.
L’oratoria ammaliante, l’entusiasmo coinvolgente, la passione “Costituzionale” e una sorta di naturale carica innovativa, aprirono porte e finestre di una Facoltà austera e decadente. Per allargare visione e prospettive verso un mare e un mondo che, all’indomani del ’68, cominciavano a muoversi lungo dorsali in parte ancora sconosciute ed a ritmi decisamente dettati dalla vivacità di un’affascinante modernità.
Da quello stesso lampione n. 152, sedici anni dopo, si leverà nuovamente il grido: “La vidua! La vidue?” L’eco allarmata riecheggiò, squarciando il silenzio ovattato e accidioso quella mattina d’agosto del 1991, circa mille anni dopo il primo avvistamento “liberatorio” della potente flotta veneziana guidata del doge Pietro Orseolo II.
Questa volta, però, la speranza non albergava tra lo sconforto “a riva” di una città mortificata dall’assedio arabo. Questa volta, la speranza avanzava lenta e inesorabile, vestendo i panni della disperazione e soffocata nel vocio brulicante di una sorta di gigantesco “favo galleggiante”, a bordo di una vecchia nave dal nome glorioso di una delle più antiche capitali albanesi: Valona - Vlora.
L’arrivo della “Vlora” e del suo carico di oltre quindicimila “disperati” mise a dura prova la tempra di quel professore, nel frattempo diventato Sindaco di Bari, e il suo impegno di cristiano in politica. In sgomenta solitudine, dovette responsabilmente farsi carico di decisioni pesanti. Enrico Dalfino lo fece con piglio da leader, facendo ricorso alla forza biblica “dell’accogliere e conoscere”. Avvertendo come Bari, la Puglia e l’Italia fossero “l’ultima speranza” per quelle che - in realtà - furono circa ventimila persone: avanscoperta drammatica di un disagio diffuso, che montava inesorabilmente al di là dell’Adriatico.
‘Sono Persone, persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro unica speranza’, è scolpito in caratteri Morse sulla scultura di Jasmine Pignatelli, che domina il waterfront San Girolamo a Bari. La frase che il sindaco di Bari, Enrico Dalfino (1935-1994), pronunciò l’8 agosto 1991, quando la nave Vlora sconvolse e stimolò le coscienze, entrando nel porto di Bari con il suo carico di 20.000 albanesi.
Resto convinto che l’accoglienza e la conoscenza come metro e strumento di organizzazione e reazione non solo pratica, ma anche politica, spensero in quel momento una miccia pericolosamente accesa da occulti artificieri internazionali. Non si spiega altrimenti la reazione scomposta di un Capo di Stato come Francesco Cossiga, che forse tradiva più la sorpresa dello stratega-sentinella di equilibri occidentali, che la funzione “maieutica” di Presidente della Repubblica di un Paese-approdo di tanta siffatta disperazione.
La “sberla istituzionale” presa inaspettatamente dal “servitore dello Stato” Enrico Dalfino, che aveva speso una vita ad inculcare il “culto dell’Istituzione” ai suoi discepoli, e che si sentì richiedere “delle scuse per il suo comportamento umanitario”, fu di una forza devastante inusitata. I cui effetti inclementi, purtroppo, saranno evidenti qualche anno dopo.
Tornai a trovare il mio lampione-amico alcuni anni più tardi, al rientro a Bari. La scritta era stata rimossa, facendolo tornare nell’indistinto ventaglio aperto su un lungomare che prolunga le sue propaggini sia a nord che a sud di una città perennemente sul mare e mai decisamente “di mare”.
(gelormini@gmail.com)
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Pubblicato in precedenza: I lampioni del lungomare di Bari e il monologo di Amleto a CrollalanzaI lampioni del lungomare di Bari e il monologo di Amleto a Crollalanza