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'La tenerezza', il senso
di Amelio per il padre
Il viatico barese del Bif&st porta bene a "La tenerezza" di Gianni Amelio.
Nel film “La tenerezza” di Gianni Amelio quasi tutti i personaggi sono accomunati dal dramma interiore con cui vivono il rapporto con il proprio padre oppure il ruolo stesso di padre. Indicherò col titolo di “PADRE” o di “protagonista” il personaggio interpretato da Renato Carpentieri. A lui poi faranno riferimento la figlia, il figlio, l'amante, il figlio dell'amante, il nipotino (bambino della figlia, avuto dall’ex compagno egiziano). Tra gli estranei, chiamerò in causa i nuovi condomini del PADRE: Michela, madre di due bambini e moglie di Fabio (venuti da Trieste), e la mamma di Fabio.
Il nipotino, conteso da mamma e nonno, è costretto a vivere lontano dall’Egitto dove vive il suo papà naturale. Michela è stata abbandonata da piccola, e quindi risulta priva di un padre per definizione. Nulla sappiamo del padre di Fabio che peraltro non viene mai menzionato nei racconti che sua mamma fa al Protagonista. Poi c’è il figlio dell'amante del PADRE, anche lui cresciuto senza un padre.
A lamentare l’assenza colpevole del padre sono soprattutto il figlio, e la figlia del Protagonista che arriva a compensare tale sorta di mutilazione attraverso il culto della propria irrequietezza e l'ostentazione di certe spigolature caratteriali che la avvicinano, e al tempo stesso l’allontanano, dal PADRE. Se c’è qualcosa che più di altre mi farà ricordare la figlia, sarà la sua continua ricerca del PADRE. La figlia cerca il PADRE in ogni modo possibile, e in vari momenti della sua vita. Lo cerca in tutta la città dopo la morte di Michela. Lo cerca in ospedale all'indomani dell’infarto subìto dal PADRE. Lo cerca nella scelta della sua professione (lei interprete esperta di lingua araba, lui avvocato). Lo cerca consentendogli di prelevare il nipotino da scuola a qualsiasi ora del mattino, con conseguente interruzione delle lezioni, per fare una passeggiata insieme.
Credo che il titolo di “Protagonista” vada riconosciuto senza tentennamenti al PADRE, e non solo – come abbiamo appena cercato di provare – in quanto epicentro emotivo di un terremoto in attesa di assestamento. Il PADRE intravvede nell'incontro con Michela l'occasione che aspettava da tempo per ricominciare daccapo, per continuare a sperare nel possibile ritorno di sua figlia. Se non è così, come si spiegano tutte le attenzioni domestiche che il PADRE riserva alla sua vicina di casa? Cerca perfino di insegnarle a cucinare, a stirare i panni e - tempo permettendo - chissà a quanti altri mondi vorrebbe avviarla.
E cosa dire del loro primo incontro? Appena uscito dall'ospedale che l'ha curato dopo l'infarto, il PADRE è un uomo diverso da prima. Ha già dato ampia prova di non voler confidare nella vicinanza dei suoi due figli. È totalmente scarico, e sta per alzare bandiera bianca di fronte all’ennesima afflizione corporale (salire 4 piani di scale). Ad un tratto avverte una presenza. Dopo un primo momento di sconcerto inquadra la situazione. Quasi quasi non crede ai suoi occhi: una donna seduta sui gradini gli ha appena detto di essere la sua nuova condomina, e di trovarsi lì perché ha lasciato le chiavi nell’appartamento dopo aver chiuso il portone. E lui pensa "Sarà sicuramente una squinternata. Meglio così".
A dire la verità, la pellicola offre più di un esempio del malessere che il ruolo di padre procura ad ogni uomo. Fabio vive nel suo regredito mondo di giocattoli. L'elicottero telecomandato, il camion dei pompieri, la stessa nave da crociera che sta costruendo. E senza rendersene conto sta allevando un maschietto destinato a sicuro autismo ("D'altronde, cosa può dire un padre al suo bambino?"). È terrorizzato, e imbarca ansia dalla prospettiva di fare il padre tutta la vita. "Sempre da me venite!", sbraita contro l’ambulante extracomunitario in Galleria mentre lo aggredisce. Fabio metterà la firma sull’accadimento più atroce del film (omicidio-suicidio). Lo spettatore ha visto abbastanza per non riconoscerne le cause. Anche se il dialogo tra sua mamma ed il Protagonista insinua il sospetto (su cui esprimo il mio disaccordo) di una deformazione psichica già manifestatasi nell'infanzia.
Per capire questo film è necessario riconoscere il ruolo centrale affidato alla voce. È il suono della voce degli attori la vera colonna musicale del film. Si potrebbe dire che il regista abbia voluto sostituire i primi piani ottico-visivi con primi piani vocali. Ci sono addirittura scene nelle quali chi parla non viene affatto inquadrato (scambio di battute tra la figlia ed un magistrato) oppure compare con sembianze di un corpo non materiale (ultimo dialogo tra il PADRE e Michela). “La tenerezza” non è però un audiolibro ma un film, in cui le voci si congiungono alla recitazione e la recitazione le amalgama fino a renderle indistinguibili dal resto, con la complicità della mimica offerta dalle varie parti corporee, e non solo quelle che permettono di respirare. Insomma, quando la voce “si vede” è più pura, meno sintetica, di quando viene somministrata “allo stato puro”.
In tutta la storia raccontata da Amelio c'è un posto speciale per la città che la ospita. Non riuscirei ad immaginare location più adatte di quelle prestate da Napoli (ospedale, tribunale, appartamenti, porto, centro direzionale, varie piazzette). Le scale, gli ascensori (quelli che ci sono e quelli che non ci sono), la funicolare danno vita ad un elemento urbanistico e architettonico che spicca su tutti gli altri. Questo alternarsi di livelli, dal mare al belvedere, crea un effetto vertiginoso che scavalca l'angusto recinto topografico. Durante la proiezione del film mi veniva da pensare a Escher.
Da alcuni giorni sul mio comodino campeggia “La tentazione di essere felici” di Lorenzo Marone. Ora che ho terminato di scrivere queste noterelle sul film, mi dedicherò alla lettura del libro che l'ha ispirato.
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Pubblicato sul tema: Bif&st, 'La Tenerezza' di Amelio nelle trame di una Napoli post Eduardo