PugliaItalia
Un bancario in Salento
Estratto di narrativa 3
L'organico della filiale di Taranto consisteva in circa sessantacinque unità, fra direzione (quattro esponenti), funzionari di procura (sei, compresi i dirigenti dell'Agenzia di città e della Dipendenza di Martina Franca), impiegati e commessi.
In seno alla categoria impiegatizia, spiccavano le figure dei cosiddetti graduati (capi reparto, vice capi ufficio e capi ufficio), cui erano demandati compiti di sovrintendenza su singoli reparti e/o servizi oppure di puro e semplice coordinamento delle attività lavorative.
A prescindere dalle anzidette non irrilevanti dimensioni numeriche, con la notazione, beninteso, che, in senso temporale, si fa riferimento a ben cinquantacinque anni fa, si trattava di una grande famiglia, c’era, sì, il sostanziale doveroso rispetto dei ruoli e delle responsabilità, ma aleggiava anche un diffuso spirito di cordialità, amicizia, cameratismo e, giustappunto, famigliarità.
Il direttore in carica all'epoca della mia assunzione e nei due primi anni di servizio era davvero il simbolo e la personalità carismatica della filiale, vuoi agli occhi dei collaboratori e dipendenti, vuoi pure secondo l’opinione e nella valutazione della clientela. Gran lavoratore, nonostante fosse prossimo alla quiescenza, ottimo bagaglio professionale ed elevata esperienza, vero e proprio esempio.
A primo acchito, dava l'impressione di un Capo duro, severo e intransigente, mentre, se da un lato esigeva impegno, dall’altro aveva un animo buono e pieno di umanità.
Sempre il primo ad entrare in ufficio, intorno all’orario contrattuale, aveva talora l'abitudine di soffermarsi sul ballatoio del primo piano e di occhieggiare sull'ingresso dei collaboratori, non mancando, in isolate occasioni, di far notare a determinati dipendenti, specie se giovani, il loro arrivo proprio sul filo dell’ultimo minuto canonico, magari rimarcando bonariamente “dopo un fine settimana di riposo e svago”.
Eccezionalmente, poteva succedere che si trovasse lì, appoggiato alla balaustra, anche intorno al momento dell'uscita per l'intervallo pomeridiano. In un frangente di questo tipo, venne ad instaurarsi una scenetta particolare e divertente.
Scorgendo l'impiegato Gino B. da Squinzano, fra i cinquanta e i sessanta anni d’età, capelli bianchi, temperamento diretto e privo di timori reverenziali, nell’atto d’avviarsi verso l'esterno, tuonò, la voce del direttore: ”Senta, lei, non ha visto che sull'orologio appeso nel salone mancano ancora tre minuti?”. Al che, il salentino Gino, senza minimamente scomporsi: “Guardi, signor direttore, che io entro ed esco secondo il mio, di orologio”, contemporaneamente toccando con la mano destra il suo cronometro al polso sinistro e, dopodiché, procedendo in direzione dell'uscita.
In quei tempi, gli sportelli adibiti al pubblico non erano attrezzati con display elettronici o apparecchiature vocali, idonei a regolare le code degli utenti; a tale esigenza, si faceva fronte mediante le “contromarche”, quadratini o figure geometriche similari, in alluminio, leggere, numerate e forate.
Ogni comparto aveva una propria piccola scorta di contromarche, infilate in un’asticella metallica con base d'appoggio; si trattava d’una vera e propria dotazione di servizio, da custodire, con cura e previo numerazione dei pezzi, al termine del lavoro.
A tale preciso, piccolo riguardo, la suggestione del fresco assunto, qui in veste di narrastorie, si elevava, sublimandosi, nell’osservare un impiegato, anzi Capo reparto responsabile del servizio Inps, tale Valentino T., detto Titino, pure lui anzianotto, figura corpulenta e sanguigna, sovente con la penna biro appoggiata su un orecchio. Don Titino, appassionato di caccia, ogni anno chiedeva di andare in ferie rigorosamente in settembre, in concomitanza con l'apertura della stagione venatoria.
Ritornando alle prima accennate contromarche, il collega in questione, a fine giornata, poneva un'attenzione e un rigore quasi maniacali nel recupero degli accessori in parola di sua pertinenza, quasi affannandosi, in caso di difficoltà a rintracciarli tutti.
E se taluno gli faceva notare che, in fondo, la sua preoccupazione era eccessiva, non esitava a ribattere: “E c’è, so cose nuestre?” (Ma, credi che siano robe nostre?).
Rammento che, un pomeriggio, don Titino si trovò ad essere protagonista di un acceso faccia a faccia con il direttore, il quale, convocatolo nel suo ufficio, gli andava muovendo una serie di osservazioni o contestazioni, non ricordo più di che natura, in certo qual modo incalzandolo e vanificando i tentativi del collega di fornire una replica o spiegazione.
Ondeggiava con tutto il corpo il povero Titino, il viso paonazzo, finché non riuscì a infilarsi in un respiro del Capo e gli gridò, meglio urlò: “M’a fa parlà! M’a fa parlà” (Mi deve lasciar parlare! Mi deve lasciar parlare!).
Ovviamente, in breve, il clima di concitazione verbale si stemperò e rasserenò.
Di fronte al Capo, in direzione, sedeva il vice direttore Michele S., barese, funzionario vecchio stampo, intransigente sul tema della serietà di comportamento sul lavoro da parte dei collaboratori e poco propenso a battute e scherzi. Se si vuole, una piccola mania, la sua, collegata anche all'età, contro cui, in qualche occasione, cozzavano il carattere allegro e i modi gioviali di un impiegato e mio amico, Franco S., originario di Pomarico, provincia di Matera.
Su lui, puntualmente, venivano a scaricarsi le reprimende, in realtà non sostanziali ma più che altro di facciata e momentanee, di don Michele: “Attento, lucano, vedi che, se continui così, ti manderò a svernare al Portafoglio” (riferimento all’ufficio Portafoglio Nazionale, dove si gestivano e lavoravano le montagne di effetti cambiari che allora circolavano a regolamento degli acquisti e scambi; in pratica, si doveva svolgere un compito non particolarmente gradito e ambito presso gli impiegati della filiale).
Passai un anno circa da operatore alle macchine contabili “Olivetti Audit 23”, che registravano tutte le scritture inerenti ai conti correnti e ai depositi a risparmio della clientela. Una mansione, è vero, ripetitiva e, però, che consentiva ugualmente di mettere in evidenza le doti di impegno, sveltezza e precisione e precisione.
Responsabile del comparto era il Capo reparto don Peppino N., nativo di Francavilla Marittima (Cosenza), il quale, ogni tanto, se ne usciva con un'affermazione tutta sua: “Guarda che l'anzianità fa grado!”. Accanto a lui, c'era la scrivania del suo conterraneo Antonio D.F., che, di lì a poco, lo avrebbe sostituito.
L'esperienza e la consuetudine con quel mondo fatto di alcune migliaia di schede consentivano, pian piano, di imparare a memoria i numeri contraddistintivi delle singole posizioni dei clienti, la quale cosa aiutava molto quando si dovevano cercare ed estrarre dagli appositi scaffali le medesime schede, per accoppiare gli assegni o i versamenti o le altre operazioni da contabilizzare.
Ovviamente, detti numeri, tanto più entravano e si fissavano nella mente, quanto più le schede si muovevano.
Personalmente, dopo che è trascorso oltre mezzo secolo, ricordo il particolare numerico di una serie di posizioni:
20278 Giuseppe F., 12528 Ing. Vincenzo D.A., 52558 Ing. Salvatore P., 52588 Teodoro P.,28 Gaetano A., 52458 Pasquale P., 52568 Vincenzo P., 52648 Federico P., 56018 Alfonso Q., 64898 Geom. Francesco S., 21 Fratelli Antonio e Vito A..
Classe anagrafica 1941, ho forse motivo di consolarmi: che la memoria tenga, non è positivo?
(3 - continua)
------------------------
Pubblicato in precedenza: Un bancario in Salento Estratto di narrativa