Giovani, lavoro e social. Il prof. consiglia: “Non abbiate paura di sbagliare”
Parte dall'Università la difesa dei ragazzi in cerca di futuro ma anche la critica: "Sono creativi solo con gli smartphone"
“I giovani devono ritrovare il coraggio di sbagliare e senza più sensi di colpa, perché l'errore è formativo e serve ad entrare nel mondo del lavoro”.
A sorpresa è un docente che spezza una lancia in favore della generazione selfie e di quell'esercito di ragazzi alle prese con la ricerca della formazione giusta per entrare nel mondo del lavoro. Daniele Pitteri direttore del complesso museale di Santa Maria alla Scala a Siena, docente di Comunicazione alla Federico II, Allo Iulm e alla Masterandskills de La Sapienza a Roma, ha un osservatorio privilegiato sul mondo “del lavoro che non c'è” e sostiene che solo attraverso il cambiamento, non solo i ragazzi, ma l'intero sistema Italia possa uscire dalla palude della stagnazione economica.
Allora professore, da dove partiamo? Dalla ricetta giusta per trovare lavoro? Dalla “sindrome del cambiamento” o ….?
“Partiamo dalla crisi che non è solo economica ma culturale e dagli effetti sui giovani”.
Facciamo un esempio.
“Intanto una ricetta non esiste altrimenti qualcuno l'avrebbe trovata e applicata. E' indubbio che ci troviamo in un Paese difficile soprattuto per le prospettive ed è chiaro che la formazione ben indirizzata è indispensabile. Vorrei dare qualche consiglio: la scelta di ciò che si studia sia a livello universitario che para universitario deve muovere da una passione personale, La scelta non può essere fatta sulle possibilità di lavoro perché questo crea delle persone formate che alla fine si troveranno senza passione e interessi per la professione e per il mestiere. In Italia abbiamo il problema non solo della mancanza di lavoro ma di competenze e professionalità sia nel pubblico che nel privato. Il problema della competenza è importante perché non è solo un insieme di saperi ma parte dal coinvolgimento personale sulle discipline e sugli interessi”.
Dunque per scegliere un master la bussola dove deve essere orientata?
“Evitare le scelte a tavolino e puntare sulla spinta interiore e dal sentimento verso lo studio”.
Ma sei giovani ondeggiano in una società mobile con passioni dettate da i trend, come potranno mai trovare il loro dono?
“Intanto il talento, il dono, ce l'hanno in pochissimi. La passione è un'altra cosa, è mettersi a fare una cosa provando interesse e coinvolgimento.Ma se sei guidato dalla passione riesci comunque. E' sempre stato difficile anche nei decenni passati individuare a 18/19 anni quella che sarà la propria strada. La differenza con la mia generazione – io ho 56 anni – e che noi mettevano in conto la possibilità di sbagliare. Invece il sistema universitario e degli studi sembra una scelta determinante per la loro vita e non si può tornare indietro E questo è terribile. E' fondamentale che escano dalla paura di sbagliare e che rischino qualcosa in più seguendo il loro istinto”.
Dunque, cambiare non è peccato?
“Cambiare è fondamentale, la cultura è cambiamento. E' rivitalizzarsi e soprattutto non bisogna pensare che sia un errore. Veniamo da una cultura cristiano cattolica – anche per chi non è credente – e ci portiamo dietro un senso di colpa enorme per qualsiasi piccolo sbaglio come se gli errori non ci facessero andare in paradiso. Invece bisogna saper sbagliare, l'errore è formativo”.
Professore, lei vive accanto ai giovani. Secondo lei l'errore più frequente che commettono, qual è?
“Se io dovessi imputare qualcosa alle nuove generazione è proprio una scarsa propensione al rischio. Capisco che non è un problema individuale ma che c'è un sistema che gli impedisce di sbagliare”.
Parliamo di economia e di crisi. Il nostro Paese è cristallizzato: dall'urbanistica delle città, eccezione fatta per Milano al patrimonio culturale. Sono anni che si parla di valorizzazione del Bel Paese. Secondo lei monumenti, statue e musei possono fornire una via d'uscita?
“E' giusto parlare di patrimonio ma non di giacimenti. I secondi si esauriscono sui primi si investe. E se si investe con manutenzione e per farlo fruttare, bisogna usarlo. I modi per utilizzarlo sono tanti e la difficoltà in cui ci troviamo è che non accettiamo alcune possibilità di utilizzo del patrimonio”.
Qualche esempio?
“Il più semplice. A Siena nel museo che dirigo abbiamo fatto un incontro con un artista tedesco che lavora col patrimonio culturale del passato. Cosa significa lavorare? Lui non pensa di installare un'opera all'interno dell'edificio o in prossimità dell'affresco ma prende il passato e lo fa diventare parte integrante della sua opera. In Italia ci scandalizziamo perché basta un meccanismo di contaminazione e si pensa che si stia svalutando la storia. A Firenze le polemiche sulle mostre e sulle installazioni ne sono l'esempio. E questo è un peccato. Vede, nella seconda metà del Novecento abbiamo cristallizzato il tempo: le nostre città sono così belle che non le dobbiamo toccate, dimenticandoci che sono diventate così belle perché toccate da ogni generazione e in centinaia di anni hanno mutato il loro aspetto. Tutto questo processo lo abbiamo avuto sino alla metà del secolo scorso. Dal dopoguerra in poi è finito. Ad esclusione di Milano per il resto non c'è stato un intervento di rinnovamento e questo è tristissimo. La seconda metà del Novecento è un'epoca di cui non ci sarà più memoria, se non le bruttissime periferie”.
Come gli uomini e le donne, anche le città devono cambiare?
“Sì, con coraggio, investimenti e rischio. Bisogna pensare che questo è un patrimonio che va fatto fruttare, quindi è contemporaneo e dinamico”.
Magari con un'installazione al Colosseo?
“Sì e senza dubbio e se questa istallazione ha un senso e se nasce dialogando. Dall'altra parte c'è un altro elemento importante. Penso che la riforma di Franceschini sia intelligente perché prevede la separazione tra conservazione e valorizzazione: penso però che ci sia ancora da fare. Noi facciamo andare ogni primo del mese le persone gratis nei musei, ma il 98% dei visitatori entrano e non capiscono nulla. Ciò che è esposto è muto perché non crea relazioni con le persone. Tempo fa venne fatto un sondaggio all'uscita dei Musei Vaticani con domande a trabocchetto su opere che mei Musei non c'erano. E' emerso che la gente ricordava opere che non aveva visto. Se vogliamo che questo patrimonio sia in grado di creare economia dobbiamo farli entrare nei musei e farli uscire affascinati.
Torniamo ai giovani. Che idea si è fatto di questi ragazzi?
“Penso che abbiamo un patrimonio di creatività che non riescono ad esprimere per i motivi che abbiamo detto prima e un po' perché c'è un mondo che non li spinge a farlo. Penso che sia per loro drammatico e il nostro ruolo sia di formatori che di lavoratori sia invece far sì che queste possibilità possano esprimersi”.
Sembra un paradosso che una generazione digitale abbia difficoltà ad esprimere se stessa...
“E' vero si esprimono ma solo nei social e lo dice uno che insegna. Ma l'osservazione che faccio è che questi ragazzi che sono sempre connessi nei social nei quali scatenano elementi creartivi hanno un rapporto col digitale che è assolutamente limitato al sociale. Oltre ai social non sanno andare. Provi a far fare a uno studente universitario una ricerca su google e scoprirà che non è in grado. La loro competenza è limitata all'uso dello smartphone anche se hanno di fronte possibilità che le generazioni precedenti non hanno avuto. Basta pensare al numero dei software open source che non vengono utilizzati dalla stragrande maggioranza
Avremo davvero una generazione selfie?
“Sì con la creazione di una dimensione parallela che confonde. I social non sono virtuali, la rete non è virtuale è reale e crea relazioni: è tutto vero e realissimo. Invece Ritengono che tutto questo sia irreale e questo è il rischio vero. Devono capire che non sono in un videogioco”.
Ad un diciottenne in crisi per la scelta degli studi cosa consiglia?
“E papà che consiglia..... Di non aver paura di sbagliare, di rischiare”.
LEGGI IL CURRICULUM DEL PROFESSOR DANIELE PITTERI