Roma

“L'incertezza devasta quanto il virus”. L'emergenza vista da Guy Chiappaventi

Le interviste di Valentina Renzopaoli. Giornalista di La7, Guy Chiappaventi racconta il suo 2020 della trincea degli ospedali

di Valentina Renzopaoli

Il Coronavirus ha abbattuto la società aperta, ha travolto i leader sovranisti ma ci ha rinchiusi nei nostri confini. “E il peggio, non credo sia ancora passato, almeno dal punto di vista della tenuta economica e sociale”.

Lo sostiene Guy Chiappaventi, sulla trincea della pandemia fin dai primi giorni dell'emergenza Coronavirus, per il Tg de La7 di Mentana. Prosegue il ciclo di interviste di Affaritaliani.it ai grandi narratori della pandemia. Il secondo appuntamento vede protagonista Guy Chiappaventi, uno dei pochi “giornalisti letterati” capace di raccontare con le immagini, sì, ma anche attraverso un linguaggio colto ed evocativo, i momenti più bui della prima ondata e poi, dopo l'estate della “liberazione”, il secondo violento tzunami del contagio. Dalle terre martoriate di Bergamo, Brescia, Cremona, ai reportage “di guerra” nei piccoli comuni al confine tra Piemonte, Lombardia e Liguria; fino alle storie raccolte sul “versante nord ovest” del Paese, nella seconda metà dell'anno.

Guy Chiappaventi, partiamo da un post scritto all'inizio del mese di novembre sulla tua bacheca facebook. “Alla fine ho pensato che quello che ci devasta di più in questo tempo malato è l'incertezza, non riuscire a vedere stamattina quello che ci aspetterà stasera, un fatto del tutto nuovo per le generazioni cresciute dopo la guerra. E' questo tempo di attesa l'altra malattia che ci corrode”. Ecco, è questo che ci lascia il 2020 che si sta consumando? Un senso di incertezza?

“Direi, per prima cosa, che il Coronavirus è riuscito ad abbattere, in una manciata di mesi, la società aperta, che le ultime generazioni hanno vissuto: da una settimana all'altra, è venuta meno la possibilità di muoversi, di viaggiare, di fare esperienze, la garanzia che il nostro tempo contemporaneo ci offriva mille opportunità. L'idea che esisteva, fino a qualche mese fa, di una società aperta è stata abbattuta. Quindi, se è vero che il virus ha travolto i leader sovranisti, come abbiamo visto anche nelle elezioni presidenziali americane ma non solo, rilanciando una certa idea di Europa, è anche vero che la pandemia ci ha rinchiuso dentro ai nostri confini. Il 2020, in generale, ci lascia anche un grande senso di incertezza: quello che si può fare oggi non è certo che si potrà fare domani; nulla è più sicuro e non possiamo sapere cosa ci accadrà: ci ammaleremo, non ci ammaleremo? Ci sarà un vaccino? Quando i nostri figli potranno tornare a scuola? Quando potremo andare a trovare i nostri parenti? Domande banali che danno un senso di grande precarietà”.

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Nel tuo percorso come giornalista, hai calpestato tanta strada, attraversando persino territori di guerra. Ecco, che cosa c'è di diverso questa volta? Quali difficoltà hai incontrato per svolgere il tuo lavoro, ovvero raccontare la realtà?

“La difficoltà principale, forse, è stata dovuta all'invisibilità del virus. Sulla prima linea, durante una guerra, ci sono i carri armati, il fumo, si sentono gli spari: in questo caso – e ricordo, in particolare, i miei giorni a Codogno durante la primissima fase della prima ondata della pandemia – la sensazione era proprio quella di non capire dove fosse la prima linea, perché il virus è invisibile. In un terremoto, una guerra, uno tzunami si può calcolare molto bene il rischio. In questa situazione, dov'è il rischio? Il rischio è un po' ovunque. Un altro problema che ha reso diversa questa situazione dalla mie precedenti esperienze è il vincolo di responsabilità che impone il virus: in una situazione estrema, il giornalista che documenta si prende un rischio che è solo suo; in questo caso, invece, si avverte un senso di responsabilità verso gli altri: i colleghi, la famiglia, gli amici, la troupe. Chi diventa contagioso è un pericolo per gli altri”.

A metà agosto, hai affidato ancora una volta ai social il tuo pensiero: “Ora tutto questo parlare a vanvera del Covid, i meme, "non ce n'è di Coviddi", le discoteche, Ibiza, Mykonos e dall'altra parti le vestali della mascherina mi gettano in un totale stato di prostrazione. Una tragedia ridotta a farsa di ferragosto, argomento da bar al posto del calciomercato”. Che cosa è accaduto questa estate?

“L'estate c'è stata vissuta con un desiderio, del tutto comprensibile, di liberazione, dopo mesi molto difficili, come si aspettasse la caduta del tiranno. Non si è compreso e ricordato quello che era successo appena poco prima. Io lo capisco e non credo sia una colpa, perché la tragedia, tutto sommato, nei mesi di febbraio, marzo ed aprile, era stata limitata, in particolare ad alcune regioni; quindi i cittadini che vivevano altrove le hanno vissute di striscio. Il post che te hai citato, è stato scritto in una situazione particolare: ero all'inaugurazione del nuovo Ponte di Genova (una città che, tra l'altro, dal G8 in poi, soffro molto), avevo girato il mio servizio nei quartieri della Certosa, tra le case abbandonate e i parenti dei morti; ero molto stanco e ho avuto degli incubi legati alla situazione del Covid. Quindi, leggendo sui social i meme, il tormentone del “non ce n'è coviddi”, etc. ho provato un grande senso si prostrazione. Ma voglio dire che capisco chi non ha vissuto da vicino l'emergenza, lontano dalle terre martoriare di Bergamo, Brescia, Cremona; e capisco soprattutto i giovani che provano un certo senso di invulnerabilità e hanno percepito i mesi dell'estate come mesi della liberazione. Quindi, quello che è successo quest'estate è che ci siamo dimenticati troppo velocemente tutto quello che era accaduto”.

Chi sta soffrendo di più per l'emergenza Coronavirus? Gi anziani, bambini? Chi non può lavorare? Chi è solo o chi ha tanti figli e non riesce a gestirli? E chi, invece, secondo te, sta traendo benefici da questa tragedia?

“I benefici vengono incassati dall'e-commerce, dalle case farmaceutiche, dalla grande distribuzione: nel mercato della pubblicità degli scorsi mesi, sono stati gli unici che hanno venduto. Chi ci ha rimesso, siamo tutti quanti. Ma penso soprattutto ai ragazzi che perdono gli anni più belli della loro vita: ho un figlio di 12 anni, che abita in zona rossa, non può andare a scuola, non può fare sport, e questa solitudine rischia di farlo appassire. I teenager pagano un prezzo molto alto per questa situazione; gli anziani l'hanno pagata e la stanno pagando in termini di vita, e in loro, probabilmente, c'è anche un senso di colpa indiretta: essendo le vittime prescelte dal virus e coloro che devono essere maggiormente protetti, immagino possano pensare che la limitazione della libertà, in qualche modo, dipenda da loro. In ogni caso, la perdita è dell'intera collettività, per una generale mancanza di socialità”.

Che cosa pensi di chi nega quello che sta accadendo?

“Che cosa vuoi che pensi... li inviterei a farsi un giro negli ospedali... non c'è niente da dire... mi vengono in mente le tante immagini che ho girato in questi mesi... l'impressione che ho provato quando sono arrivato al cimitero di una piccola città di provincia, Tortona nell'Alessandrino, dove non si riuscivano a smaltire i corpi da cremare, per cui si è dovuti ricorrere ad un container frigo, di quelli che si usano nei porti per i pesci... oppure a quando sono stato a Piacenza a parlare con i titolari di una grande ditta di onoranze funebri: nei loro locali, di solito predispongono una bara in ogni stanza per consentire ai parenti di dare l'ultimo saluto. Ebbene, in ogni stanza, invece di una, di bare ce n'erano dieci. Quindi si camminava tra quaranta, cinquanta bare. Cosa vuoi negare...”

C'è stato un momento che hai avuto paura?

“No, ho sempre cercato di calcolare i rischi. Inoltre, mi ero dato una regola: quella di non entrare all'interno degli ospedali per salvaguardare la mia salute, salvaguardare i colleghi della troupe, non essere fermato dall'azienda in caso di un'eventuale positività, ed anche per una regola etica. Certo ero preoccupato, sapevo che mi sarei potuto contagiare ma era un rischio abbastanza calcolato”.

L'immagine, il volto, lo sguardo che non scorderai mai?

“La tenerezza degli anziani nelle Rsa della Val Seriana o a Nembro, rimasti da soli, più soli di tutti, che vedevano i loro amici morire; i volti e gli occhi dei malati di Alzhaimer che non capivano bene cosa stesse succedendo, collegati con i loro figli o nipoti attraverso un Ipad. Non li potrò dimenticare”.

C'è una domanda che avresti voluto fare e non hai avuto il coraggio?

“No, le domande si fanno tutte”.

All'inizio ci dicevamo che darebbe andato tutto bene. Non è stato proprio così. Ora, il peggio è passato?

“Non lo sappiamo, proprio per quel senso di incertezza di cui parlavo all'inizio. Forse, da un punto di vista sanitario, è possibile che il peggio sia passato. Dal punto di vista economico, cosa potrebbe succedere non lo sappiamo. A dire il vero, io non ho mai pensato che potesse andare tutto bene, ho sempre avuto paura soprattutto della tenuta mentale e sociale del Paese; il caos genera insicurezza che, a sua volta, genera violenza. No, non mi azzarderei a dire che il peggio è passato: la medicina è più preparata, abbiamo meno morti anche se non meno malati, però non mi sento di dire, dal punto di vista della tenuta economica e sociale, che il peggio sia passato, no”.

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