Roma

La fuga, il secondo racconto di Adriana Soares da leggere sotto l'ombrellone

Su Affaritaliani.it il secondo racconto estratto da “La piega del tempo” di Adriana Soares

Dopo la "La piega del tempo"  arriva “La Fuga” il secondo appuntamento coi racconti d'estate di Adriana Soares, fotografa, pittrice, poetessa e scrittrice di racconti per piccoli e per grandi e prossima romanziera , nata a Rio de Janeiro, e chevive a Roma dall’età di 11 anni.

Quante lettrici si riconosceranno nella donna protagonista de "La fuga"  che fugge dalla propria famiglia che la opprime, da un marito che non la comprende?

LA FUGA

Era quasi sera. La pioggia veniva giù senza tregua ed i marciapiedi brillavano sotto la luce dei lampioni. Alcuni passanti si incrociavano con i loro ombrelli, camminando quasi di corsa con l’espressione un po’ affaticata. Le automobili scivolavano di corsa sull’asfalto tra una clacsonata e l’altra. Federica si sedette su una panchina del giardino comunale, in verità non sentiva la pioggia, ne il freddo, non sentiva nulla. Era solo un po’ confusa perché doveva decidere ancora la strada da seguire. Quella panchina, era ora diventata una sorta di punto di partenza. I passanti la fissavano un po’ perplessi, ma a lei non interessava. Rimase lì, sotto la pioggia, immobile, aspettando il momento giusto per ripartire.

Avrebbe dovuto decidere la sua meta.

Era stanca, e un solo pensiero le martellava in testa:

“Cosa sarebbe accaduto d’ora in avanti?”

Se fosse uno sbaglio? Sarebbe dovuta tornare a casa? No. Si rendeva conto che c’era una forza innaturale che la stava spingendo a fuggire. Si sentiva intontita e l’unica cosa che avrebbe potuto fare in quel momento era chiudere gli occhi, per non contrastare quel turbinio di sensazioni che la intontivano quasi fino alla nausea.

Si vedeva seduta alla finestra, come era solita fare, col suo libro tra le mani. Forse quella situazione la riportava alla calma. Aveva scelto il momento giusto per allontanarsi di casa. Il momento in cui non ci sarebbe stato nessuno a giudicarla, criticarla, o perfino anche ad augurarle buona fortuna. Ora che aveva deciso di andarsene, si sentiva rinascere, riemergere.

Se non fosse stata così confusa, avrebbe assaporato quel momento e ciò che sarebbe successo da lì a poco:

“Mi sento viva!”

Ogni scoperta sarebbe stata straordinaria. Muovere i primi passi sarebbe stato quasi una magia. Si era sposata sette anni prima e quelle tre ore di libertà, le erano bastate a restituirle una persona ormai sconosciuta e nuova in un certo senso. Guardava il mondo con occhi completamente nuovi e sconosciuti. Alla fine era più colpita dall’idea che per l’azione in se. Ma alla fine avrebbe dovuto decidere la destinazione. Provava non solo allegria ma anche un senso di sollievo. Ma anche un pizzico di paura. Attraversò la strada pedonale e si accostò al muretto per ammirare il mare in rivolta. La pioggia persisteva incessante. Il mare si scuoteva con immensa forza e ribellione e quando le sue onde gonfie e schiumose si rompevano sulle rocce, la schiuma salata spruzzava ovunque sciogliendosi al contatto con l’acqua torbida. Rimase lì accostata, per un momento, osservando il mare e domandandosi se quel tratto di mare fosse profondo oppure no. Era davvero impossibile indovinare.

Le acque erano così scure e sporche che era impossibile indovinarne la profondità che poteva essere di parecchi metri o di pochi centimetri.

L’infinito era nascosto in quel mistero.

Immaginava di tuffarsi in quel mondo senza fine.

Si sentiva affogare al solo pensiero. Immaginava di cercare il fondale, ma senza riuscire a toccare con i piedi, sarebbe morta. Un senso di angoscia la pressava. Doveva essere davvero masochista per ricercare quella sensazione.

Suo marito aveva un particolare talento: bastava la sua presenza per farla spegnere e chiudere in se stessa. All’inizio, questa caratteristica la faceva sentire tranquilla, ma col tempo iniziò ad annoiarla, così iniziò sempre di più a cercare di scollegarsi dal mondo, rifugiandosi in una dimensione solo sua, una sorta di stanza segreta. Lì poteva trovare quel senso di leggerezza che le mancava. Smise di piovere. Faceva un po’ freddo, ma in fin dei conti si sentiva bene. Non sarebbe mai tornata a casa. E questo pensiero la consolava facendola sentire leggera. Lui si sarebbe sorpreso? Penso proprio di sì, sette anni le pesavano come un ammasso di piombo. Ogni singolo giorno di quei sette anni si era sciolto, fuso, formando un unico blocco di piombo, come un’immensa ancora, come quella dei transatlantici. Si trovava attaccata a quell’ancora in una profondità oscura e cieca. Il suo sguardo aveva acquisito la profondità di un pozzo profondo e silente, le cui acque sembravano catramate e dense appiccicose come le sabbie mobili.

I suoi gesti erano scomposti e ormai stanchi, mossi da un solo pensiero che la angosciava: la sua anima era alterata, ormai perduta. Aveva sempre vissuto nell’attesa, dietro la sua vetrata, da lì vedeva le stagioni cambiare, andare e tornare.

Non sapeva cosa stesse aspettando. I desideri pian piano stavano diventando dei fantasmi, dissolvendosi per accendere a malapena la lampada del suo buon senso. Desiderio e buon senso non sono compatibili. Non era una rivoluzionaria ed il suo buon senso alla fine era solido ed affidabile. Il suo cuore era limpido e sincero.

Però, si sentiva cadere, mangiava cadendo, dormiva cadendo, viveva cadendo. Avrebbe dovuto cercare un luogo dove poter appoggiare i suoi piedi incerti. Era in cerca di terra ferma. Tutto quel rimuginare, la fece sorridere anche se avrebbe desiderato piangere, e questo, la fece inclinare in avanti sul muretto mirando le onde rabbiose sotto di lei.

Un individuo anonimo si fermò ad una certa distanza fissandola con aria interrogativa. Avrebbe voluto avvicinarsi a quell’uomo, ma l’avrebbe fatto anche con un piccione, perché desiderava condividere quella notizia:

“Lo sai che sta piovendo? E no! Lo sai che ero una donna sposata? E no! Ora sono una donna!”

Si rimise in cammino scordandosi dell’uomo.

Aprì le braccia, aprì la bocca e sentì l’aria fresca penetrare in tutte le sue cellule, rinnovandole. Si domandò come fosse stato possibile aver tanto atteso quel rinnovamento. Solamente oggi, dopo sette secoli, sarebbe uscita dalla doccia fredda, si sarebbe vestita leggera e avrebbe preso il suo libro preferito. Ma questo pomeriggio era diverso.

Faceva caldo e lei soffocava. Aveva aperto tutte le finestre di casa, ma inutilmente, l’aria restava ferma, stantia, pesante.

Alcun cambiamento, il cielo era basso, avrebbe potuto sfiorarlo, le nuvole erano scure e pesanti. Cos’era scattato in lei? Forse il caldo, forse il malessere profondo, non fisico. Qualcosa dentro di lei iniziò a mutare irrimediabilmente. All’improvviso, si tolse i vestiti di dosso, li strappò in mille strisce, mentre fuori iniziò a piovere, delle gocce enormi prima della grandine. L’aria iniziò a diventare sempre più pesante togliendole il respiro tanto da farla quasi soffocare. Rimase in silenzio nel centro della sua camera ordinatissima e perfetta.

Si vedeva riflessa nello specchio dell’armadio e non si riconosceva più. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che si era vista, apprezzata, presa cura di quella ragazza, donna, femmina che cercava di liberarsi.

Era stata imprigionata per troppo tempo.

La pioggia sempre più fitta non l’aiutava a liberare la sua mente da quei pensieri rivoluzionari, anzi la spingevano sempre più a compiere qualche gesto estremo.

La pioggia era ormai un diluvio.

Un vento fresco e forte soffiava circolando tra le stanze di casa sua, facendo sbattere le finestre spalancate.

Schiaffeggiava il suo volto rovente e livido per lo spavento.

Si calmò per un attimo.

Si rivestì. Raccolse tutti i soldi che trovò per casa e se ne andò. Le venne fame. Sono sette anni che non aveva appetito. Entrò in un ristorante.

Assaporò del pane fresco, croccante ed ancora caldo, della zuppa fumante e la più buona di sempre. Chiuse gli occhi e cercò di assaporarli per un attimo che durò un’eternità.

Ordinò un caffè forte e amaro.

Ogni cosa era finalmente al suo posto, ogni cosa stava acquisendo colore, calore e sapore. Trovò un albergo modesto, ma pulito. Le sembrava di essere una turista in vacanza. Il cuscino era morbido e le lenzuola erano fresche e pulite. Quando giunse la notte, prendendo possesso della stanza, la luna sorse e dopo la pioggia, sembrava ancora più grande e luminosa e finalmente lei avrebbe potuto addormentarsi sotto i suoi raggi argentei.

Si farà giorno e di mattina sarebbe andata a comprare il necessario per il viaggio. La sua nave sarebbe salpata alle quattro del pomeriggio. Il mare era finalmente sereno, senza onde, era accogliente ed ospitale.

Dopo la giornata di pioggia del giorno prima, il cielo era di un blu violento e accecante, le nuvole si allontanavano rapidamente, sgomberavano il campo di battaglia del giorno prima.

Finalmente il silenzio, le acque accarezzavano dolcemente lo scafo dell’immensa nave arancione e bianca.

I gabbiani la salutavano volandole intorno con aria festosa.

Era finalmente felice.

La povera Federica, in verità, non aveva abbastanza soldi per viaggiare. Non era autosufficiente per la sua fuga, così, si era raccontata una favola. Quale sarebbe stata la verità? Ritornò a casa. Non poteva odiarsi di più. Ci aveva provato ma era stanca e si sentiva una larva sconfitta. Non poteva andare contro gli eventi, ma così facendo si sarebbe annichilita.

Entrò in casa e trovò suo marito a letto intento a leggere il giornale che, prontamente, la informò che la piccola Anna non era stata bene. Prese un bicchiere di latte caldo, perché non aveva fame.

Indossò il suo pigiama bianco a fiorellini rosa in cotone morbido. L’unico conforto che avrebbe potuto avere in quel momento. Si lavò i denti. Andò dalla sua bimba che ormai dormiva tranquilla nel suo letto e le diede un bacio ed una carezza, liberando il suo visino dai capelli biondissimi.

Era una bambina bellissima nell’innocenza e nell’incoscienza tipiche di una bambina di sette anni.

Tornò in camera sua, da suo marito, spense la luce al centro della stanza.

Si infilò in silenzio sotto le coperte di lino e pizzo bianco del corredo di famiglia.

Anche suo marito spense la luce accanto al suo lato del letto.

Dietro agli alberi, la luna si alzava in cielo illuminando l’oscurità. Tutto era come sempre. E come doveva essere.

Per un po’ i suoi occhi restarono aperti, in attesa.

Poi asciugò le lacrime con le lenzuola, chiuse gli occhi, si posizionò sul fianco in posizione fetale.

Sentiva la forza della luna dentro di lei e nel silenzio della notte, la sua nave, si allontanava sempre di più nell’orizzonte.

“La piega del tempo”, racconti di Adriana Soares come dipinti di luci ed ombre