Roma
Senza lavoro: “Colpa delle Università, sono fabbriche di disoccupati”
Il professor Gentili: “I laureati si facciano il segno della croce”
di Fabio Carosi
“Sono disoccupato, cerco lavoro, ma se lo trovo preferisco non lavorare. A meno che la mia occupazione non sia vicino a casa e conforme alle mie aspettative e al mio corso di studi”.
Il caso dei tre laureati che hanno rifiutato uno stage retribuito in una multinazionale, solo perché il posto di lavoro era a Milano, diventa un problema sociale. Affaritaliani.it ha chiesto al professor Stefano Gentili, docente scuola di Business Master And Skill presso il Dipartimento Memotef (Dipartimento Metodi e modelli per l'economia, il territorio e la finanza) di Economia dell'Università La Sapienza, di tracciare un profilo dei tanti giovani che sembrano aver deciso di non misurarsi col mondo del lavoro.
Professore, col 40 per cento di disoccupazione giovanile, il lavoro tra i giovani viene percepito come un dramma?
“Come esperto in valutazione delle competenze io incontro centinaia di ragazzi e le assicuro che la percezione è reale ma il vero problema non è tanto nel riuscire a trovare lavoro ma nell'affrontare le loro aspirazioni come un dramma”.
Ci aiuti a capire....
“Il lavoro non c'è, è un obiettivo difficile e molte attività sono nel settore commerciale. Ma se un ragazzo vuole veramente impegnarsi deve prima farsi le ossa per iniziare a conoscere le regole: le proprie responsabilità, le capacità organizzative. La maggior parte di chi cerca occupazione ha aspirazioni giuste però non vengono soddisfatte da quello che trova”.
Ma rispetto al passato cosa è cambiato?
“E' cambiato il modo di operare nella formazione e la maggior parte delle materie che i ragazzi studiano non sono spendibili. Va peggio all'Università dove i ragazzi che hanno passione per una materia si orientano verso facoltà che non sono le loro. Accade insomma che il ventaglio delle possibilità di studio è immenso, quello delle possibilità di lavoro non è così”.
Professor Gentili, se l'analisi è giusta ci troviamo di fronte a un clamoroso errore sociale. Sforniamo laureati che non troveranno mai lavoro nei campi in cui tecnicamente dovrebbero essere ferrati. Insomma, scuola e lavoro sono due mondi ortogonali. E' giusto?
“In realtà l'errore sociale non esiste perché il mondo è quello che vogliamo che sia. Le faccio un esempio: nel momento in cui hanno inventato i computer il mondo è andato avanti e gli studi dovevano prendere strade diverse. Alcune facoltà universitarie dovevano rinnovarsi e altre addirittura chiudere. Oggi ci sono tantissimi avvocati e laureati in economia, tanti laureati quasi quanti sono i preti. Ma se il bisogno di fede può aumentare quello del diritto un po' meno. Eppure Giurisprudenza esiste ed è piena. In realtà le professioni sono come gli scaffali dei supermercati: entriamo e prendiamo le marche note”.
La soluzione?
“Intanto diciamo che i giovani sono cambiati e in male. E' vero che le loro aspettative vengono frustrate ma d'altra parte sono abituati al concetto del posto fisso e poi la maggior parte di loro non ha alcuna capacità imprenditoriale”.
E' impensabile però che tutti i disoccupati aprano paninoteche...
“La creatività non ci manca, di imprese ce ne vorrebbero e non possiamo fare tutti i ministeriali. Vede i ragazzi non hanno motivazioni e passano la maggioranza del loro tempo a sorseggiare birre e aperitivi e sui social, pur avendo di fronte la persona con cui chiacchierare. Chi cerca lavoro non va tutte le sere a Campari, va nei musei, cerca convegni magari per ampliare le loro capacità di relazione. Non costruiscono il network sociale a meno che non sia digitale ma sono tutte cose che non servono nulla. La reputazione non si costruisce su Facebook ma con le relazioni reali”.
Professore, perché i ragazzi non vogliono più partire dal basso per inserirsi nel mercato del lavoro?
“Il “basso” o l'alto non sono reali. Il vero problema è che non hanno un progetto. Nel passato si pensava: “chi sarò, chi diventerò” e si associava a un percorso. Ora non capiscono il loro futuro e sono infelici. E il progetto non sono in grado neanche di farlo. Non raccontato più neanche le barzelletti, sono poveri di spirito e questo forse è colpa del digitale. La verità è che il mondo sta cambiando nei comportamenti e nei sentimenti. Quando io ero più giovane i miei figli investivano del tempo per chiacchierare e dirmi ti voglio bene. Oggi mi mandano tvb o faccette; comprimono pure i sentimenti che sono il fondamento del cervello. E' il linguaggio che fa crescere e loro non usano linguaggi aperti ma sigle che non hanno espressione esteriore. Infine non hanno capacità di capire il futuro e poi dicono che non c'è perché hanno rubato loro il futuro. Ma se qualcuno mi ruba qualcosa io faccio la denuncia. Ecco, non hanno neanche il progetto della ribellione. Non abbiamo più una gioventù ribelle e inquieta”.
Il 1968 sembra lontano un millennio?
“E' così”.
Diamo a questo ragazzi un consiglio...
“Cercate di essere felici perché si è felici si riesce ad avere progetti per il domani”.
E sul percorso degli studi, visto che lavora per una importante organizzazione che realizza master?
“Se dovessi oggi dare consiglio direi di impegnarsi nel campo delle neuroscienze. A un'altra figlia di studiare biologia o ingegneria informatica”.
E a chi esce dal altre facoltà?
“Di farsi il segno della croce... Scherzi a parte, accettare di fare qualsiasi cosa: lavare auto, camerieri perché insegnala responsabilità e l'onere della fatica e il rispetto degli altri e tutte quelle cose che i ragazzi digeriscono con difficoltà. Tre ragazzi che non si presentano ad un lavoro sono tre persone che non conoscono la fatica e il mondo che si troveranno di fronte, E neanche le opportunità, perché per andare sulla Luna bisogna passare di asteroide in asteroide. Ci vuole tempo. Invece pensano che basti una una laurea e un master e questo perché il digitale ha creato persone che a 28 anni erano padroni della Apple o hanno inventato Facebook. Intanto queste persone hanno vissuto in un momento d'oro e poi sono grandi intelligenti. Il mondo non è fatto di grandi intelligenti sono pochi”.
Ma vale la pena fare un master?
“Vale la pena con una struttura che ha capacità di placement e con docenti che non insegnano la materia ma anche la vita. Loro e la società hanno bisogno più di mentori che di docenti”.
Leggi il curriculum del professor Stefano Gentili