Roma
Stati Generali: Conte come Luigi XVI, il Re rimasto solo col suo maxi debito
Le analogie storiche tra Versailles e Villa Pamphili teatro degli anacronistici Stati Generali. Andrea Augello rinfresca la memoria a Rocco Casalino
di Andrea Augello
Stati Generali, l'ultima volta Il 5 Maggio del 1789, a Versailles, presso una sala dell’Hotel des Menus-Plaisirs. Qui Luigi XVI dopo il consueto saluto del Re di Francia, ai convenuti fu inflitto un discorso di quasi tre ore del Ministro delle finanze Necker, incentrato sulla difficile situazione economica e finanziaria del Paese.
La relazione ministeriale proponeva una ricognizione a dir poco ottimistica del disavanzo dei conti dello Stato, con una stima pari a 56 milioni di lire francesi, mentre tutti sapevano perfettamente che di lì a pochi mesi si sarebbe rivelato corrispondente a poco meno del doppio di tale cifra. Al Re i lavori dell’Assemblea parvero un successo, ma alla fine scoprì a sue spese che quella messa in scena lo aveva definitivamente isolato.
La monarchia assoluta era parsa fuori dalla realtà, anacronistica, incapace di affrontare i veri problemi di quella difficile congiuntura politica ed economica, imbelle. Quando, appena un mese dopo, Luigi riconvocò l’assemblea, la situazione gli sfuggì di mano definitivamente, venne proclamata la fine degli Stati generali e la nascita dell’Assemblea nazionale e si arrivò al famoso giuramento della sala della Pallacorda: era il principio della fine della dinastia dei Borbone in Francia.
Ora io non pretendo che Rocco Casalino, regista dell’intera operazione mediatica che avrebbe dovuto fabbricare l’immagine del Conte ricostruttore del Paese, abbia la benché minima familiarità con la breve rievocazione storica che ha dato l’incipit a questa riflessione, ma, benedetto Iddio, possibile che a Palazzo Chigi nessuno abbia messo il premier sull’avviso di quanto le parole Stati Generali evochino l’immagine di un potere parruccone, incipriato, paternalistico, anacronistico, incompetente, arroccato sulla difesa di privilegi ormai fuori dalla realtà? Insomma, una reliquia istituzionale che non va più di moda da oltre duecento anni, cioè da quando esistono Costituzioni e Parlamenti e, soprattutto, una roba che potrebbe pure portare un po’ sfiga.
Si tratta di un infortunio dovuto all’ignoranza imperante nel Partito del popolo, non a caso a lungo dominato da Luigi di Maio, che è finito a fare il Ministro degli Esteri pur essendo convinto che Augusto Pinochet fosse un dittatore venezuelano. Tuttavia, esattamente come sperava la Corona nel 1789, dieci giorni di aperture di telegiornali, di banalissime e spesso irrealizzabili ricettine economiche per assicurare una ripresa in cui ora nessuno crede, oltre ad una serie di immense bugie e baggianate, che il Ministro Necker non avrebbe mai neppure osato sussurrare, avrebbero, nel cervelletto di Casalino, dovuto prolungare e sublimare i memorabili discorsi sulla pandemia a reti unificate che avevano, al tempo del lockdown, per settimane saturato le case degli italiani. Invece no: per l’intera durata dell’iniziativa, tutti, ma proprio tutti, ci hanno tenuto a schifarla pubblicamente, ondeggiando tra due alternative prevalenti: non ci vado e ne parlo male, oppure ci vado proprio per parlarne male? L’opposizione ha scelto la prima soluzione, trovando poco remunerativo aderire ad un appello all’unità, che nell’alta strategia di Conte significava ascoltare svogliatamente Salvini e la Meloni una mezzora a settimana, per poi ignorare completamente ogni loro proposta. Le associazioni imprenditoriali hanno invece optato prevalentemente per la seconda, trovando un leader dell’interventismo antigovernativo nella persona del Presidente della Confindustria Carlo Bonomi, che ha menato fendenti spietati contro l’Avvocato del popolo, invitandolo a parlare meno e a restituire alle imprese i soldi anticipati per la cassa integrazione e a pagare i debiti arretrati dello Stato verso i fornitori.
A ruota è giunto il Presidente dell’Ance, sottolineando che il convegno degli Stati Generali giungeva dopo ben otto tavoli di confronto tra la sua associazione e il governo, tutti conclusi senza alcun risultato.
Poi sono arrivate le legnate di Unimpresa e di tanti altri. Nel frattempo dall’esterno del Casino di Villa Pamphili, sempre più circondato e simile ad un fortino improvvisato, come nei giorni caldi della Repubblica romana del 1849, sono partite e arrivate cannonate isolate di calibro medio e piccolo molto precise, come le parole del Presidente De Luca o il lapidario giudizio -“tempo perso”- del vecchio De Benedetti, oltre a decine di editoriali di ogni testata giornalistica variamente indirizzata, impegnati a smontare pezzo per pezzo lo spirito autocelebrativo del raduno voluto da Conte. Dobbiamo invece affidarci ai retroscenisti della carta stampata per una sommaria rassegna dei commenti sconcertati e irritati degli alleati di Conte: racconta sul Messaggero, il mio amico Mario Ajello, che i parlamentari grillini lo avrebbero ribattezzato Giuseppi Napoleone, per non parlare dell’insofferenza per una kermesse priva di qualunque contenuto, mostrata e fatta trapelare da un tipo di solito relativamente gioviale come il Ministro del Tesoro Gualtieri.
Persino a Franceschini, un uomo legato allo scranno ministeriale assai più di quanto Edipo lo fosse alla madre, pare sia per la prima volta sfuggito qualche flebile fonema, che i più esperti tra i cronisti parlamentari hanno interpretato come un dissenso dal premier. Resisi conto, ormai in zona Cesarini, dell’impossibilità di chiudere una cotale adunanza senza non dico un documento programmatico, ma almeno una singola proposta comprensibile, Casalino e Conte hanno buttato sul tavolo, come nulla fosse, la proposta di ridurre in percentuale imprecisata l’IVA. E lì li aspettava, come un cecchino, Visco in persona, che con studiata perfidia sciorinava un comunicato finalizzato a classificare la proposta, con una ben più adeguata e arzigogolata supercazzola negativa in stile Bankitalia, alla stregua di un’ennesima, infattibile boutade.
Solo Zingaretti - che, bisogna dirlo, lo spirito sociale e assistenziale ce lo ha nel sangue - ha avuto qualche parola buona per il povero avvocato Conte, asceso al trono di Palazzo Chigi come prestanome di Salvini e Di Maio e ora alla ricerca disperata, come il Pinocchio collodiano, di un’identità politica tutta sua. La vertigine di un’effimera stagione di sondaggi lusinghieri, di cui si sarebbe giovato persino Jack lo Squartatore, se solo avesse potuto parlare a reti unificate per due mesi a tutta l’Inghilterra vittoriana per spiegare i suoi problematici rapporti con le prostitute di Whitechapel, ha infine generato il paradosso di un leader politico solo come un cane davanti all’abisso di una crisi che non sa minimamente come affrontare.
Dietro questa contraddizione si cela una coalizione tra acerrimi avversari, che sembra interrogarsi ogni giorno di più sul senso del percorso che ha imboccato e sull’effettiva convenienza di ultimarlo fino ai suoi esiti conclusivi. Non hanno neanche mezza idea in comune su come scrivere la finanziaria, non sono affatto convinti di trasformare la coalizione in un cartello stabilmente alternativo al centrodestra, non controllano i gruppi parlamentari, non sanno che fare alle regionali, non hanno nessuna speranza di evitare un salasso di consensi davanti alle devastanti conseguenze della crisi e all’infrangersi di fronte alla realtà delle mille promesse frettolosamente sciorinate nei lunghi giorni della cattività del Coronavirus. La solitudine di Conte si spiega anche con la difficile situazione interna dei leader della coalizione: Zingaretti, già contestato da un partito che non è ancora riuscito a plasmare sotto la sua guida, Di Maio con un movimento dimezzato e dilaniato da scontri interni, che ormai mettono in discussione persino la figura del fondatore e infine Renzi, la cui scissione ha generato un topolino assai ciarliero, ma relegato nei sondaggi tra i titoli di coda del poco o niente per cento. Tutte persone che non possono che provare fastidio e disagio davanti ai pavoneggiamenti del Presidente del Consiglio e ai sondaggi che pesano le possibili conseguenze di una sua lista o di una sua scalata alla leadership del Movimento Cinque Stelle.
Certo, potrebbero tutti restare abbarbicati alla legislatura, almeno fino all’elezione del Presidente della Repubblica, ma il sospetto è che nel frattempo perderebbero ogni tipo di elezione intermedia, per poi ritrovarsi nell’incubo di un fiume di votazioni segrete a Camere riunite, dove potrebbe accadere davvero di tutto, a meno di non patteggiare preventivamente una rielezione di Mattarella, per evitare di addentrarsi nella palude di una trattativa impossibile.
Per tutte queste ragioni, a Luglio non mi stupirei se il clima nella maggioranza giungesse ad un brusco deterioramento, persino ad una crisi, magari al Senato, dove già il povero Giuseppi ha rischiato l’osso del collo nel voto di fiducia sul decreto elezioni. Magari non andrà così, ma, se dovesse capitare, dovremmo almeno tutti convenire sul fatto che le convocazioni degli Stati Generali portino ancora davvero molta, molta sfortuna.