Roma
Una pipì con Maroni. Cosi i Radicali si accordarono con Berlusconi. La verità
La “svolta” di Pannella del 1994 che fece eleggere anche la Bonino
Nella storia del partito Radicale c’è anche un paradosso: l’accordo con Forza Italia e la Lega nacque in bagno: a fare la pipì si incontrarono Lorenzo Strik Lievers e Roberto Maroni che suggerì come far uscire il partito di Marco Pannella dall’impossibilità di essere eletti al Parlamento nei collegi uninominali. Era il 1994.
di Vittorio Pezzuto *
Marce e sit-in, leggi di iniziativa popolare, manifestazioni, riunioni e congressi, iniziative nonviolente, battaglie tematiche, raccolta firme su referendum: era questo il menù goloso che tra un digiuno e l'altro Marco Pannella proponeva ai militanti radicali. Poi, purtroppo, a spezzare l'armonia di quel casino organizzato fatto di autofinanziamento, marciapiedi e fantasia capitava ogni tanto una vera rottura di coglioni: le elezioni.
Il fatto è che a molti di noi apparivano alla stregua di un elemento cacofonico ma impossibile da ignorare: un po' come quando stai sul vagone della metro e una spagnola improbabile e vocalmente svantaggiata attacca a cantare "Besame mucho".
Eravamo gente strana, lo ammetto, ma allora non si pensava a far carriera: si pensava a far politica, e quella fatta fuori dal Parlamento (magari proprio per convincere deputati e senatori ad adottare buone leggi) ci bastava e avanzava.
Radicali: competenti, onesti e leali. Ma non bastava
Peraltro col voto i radicali non hanno quasi mai avuto fortuna. Sì, certo, la gente in genere ci riconosceva le qualità dell'eletto ideale: competenza, onestà, integrità morale, una visione europea e concreta dei problemi. Però poi, dopo aver indugiato per anni nei preliminari, il coito andavano a consumarlo in cabina con qualcuno di quegli stessi partiti che tanto dicevano di schifare. De gustibus disputandum est, ma che ci vuoi fare? Sapevamo di militare in una squadra aggressiva ma che non avrebbe mai vinto il campionato, che trovava alimento in un passato glorioso e disponeva di una tifoseria temprata dalla sofferenza e incrollabile nella sua passione, povera di mezzi ma con alcuni fuoriclasse che altri ci invidiavano, regolarmente massacrata da arbitri cornuti e sottovalutata in tv dai commentatori. I genoani mi capiranno.
Non è un caso che già nel 1987, con la trasformazione della baracca in forza transnazionale e transpartitica, avevamo deciso solennemente che non ci saremmo più presentati col simbolo del partito, proprio per evitare la consunzione nelle urne della parola "radicale". Liberi tutti di darsi da fare per creare nuovi soggetti elettorali, mescolandosi con chi più ci piaceva (e Francesco Rutelli, che Marco chiamava «il nostro deputato Coca-Cola», questa cosa la capì finalmente due anni dopo durante una riunione a Bohinj in Slovenia, e mi ricordo ancora quello strano luccichio nei suoi occhi...).
Da allora in poi quando la casamatta di via di Torre Argentina decideva di giocare la partita europea o italiota - che le amministrative le abbiamo quasi sempre disertate – indossavamo negli spogliatoi un'altra casacca: Verdi arcobaleno, Antiproibizionisti, Lista Pannella per il Partito democratico, Lista Pannella-Riformatori, Lista Emma Bonino, Lista Amnistia Giustizia e Libertà e non so più cos'altro. Tutto ciò premesso (come usa scrivere nelle delibere del Comune di Chepalle di sotto), siamo all'inizio del 1994 e il sistema politico è un soufflé ormai floscio e immangiabile. Scatole vuote di pensiero e azione, i partiti si stanno sbriciolando sotto il maglio di Tangentopoli, ad eccezione dei comunisti: foraggiati per anni da una potenza straniera e ostile, agitano ipocriti il ditino scandalizzato e intanto gongolano convinti di potersi intascare tutto (ve lo ricordate, vero, quel gattone di Achille Occhetto - poi divenuto randagio - che già si leccava i baffi?). E mentre alcuni furbetti con la toga sognano di rivoltare lo Stivale come un calzino, i giornaloni sussidiati con fondi pubblici suonano entusiasti la grancassa contro la prima Repubblica che per decenni hanno fiancheggiato. Insomma, l'Italietta di sempre ma sporca di calcinacci e ingombra di materiale di risulta. Pannella, che insieme a noi quel sistema aveva combattuto per anni, non si fa illusioni. Sa che al peggio non c'è mai fine e già l'anno prima ha tentato di tamponare lo sbracamento istituzionale, ad esempio tirando giù dal letto gli avversari di sempre per convocarli straniti alle 7 del mattino nel palazzo di Montecitorio. Unico punto all'ordine dei lavori: possibili iniziative in difesa del Parlamento. Figuriamoci. I feroci saladini della partitocrazia erano ormai cuccioli tremebondi, incapaci di qualsiasi reazione. Fissavano irretiti l'azione del Pool di Mani Pulite - tipo Mowgli nelle spire di Kaa - e intanto si aggrappavano a Marco come l'ultima ciambella della Repubblica (lo stesso Craxi gli propose addirittura di prendersi quel che restava del Psi e guidare la riscossa delle forze laiche ma lui rifiutò e questa è un'altra storia, che per fortuna o purtroppo non c'è mai stata).
L'incubo della raccolta delle firme
Bref, quell'anno le elezioni anticipate sono state fissate per la fine di marzo e in una saletta della Camera ci sfiniamo in interminabili riunioni per la cernita dei candidati nella Lista Pannella per il Partito democratico (quello all'americana, mica la roba che i pidiessini battezzeranno 13 anni dopo). Dobbiamo raccogliere le firme in tutta Italia, su base regionale, e i militanti mordono il freno preoccupati di non farcela. Marco invece traccheggia, esita sulla scelta dei nomi. Un problema di abbondanza? Esattamente il contrario. Stavolta si gioca col Mattarellum e nei collegi uninominali per noi non c'è partita. Le uniche speranze di non retrocedere sono concentrate nella quota proporzionale, con lo sbarramento fissato al 4 per cento. Come se non bastasse, la legge elettorale obbliga a una stupida alternanza tra uomini e donne che complica e di molto le tattiche di gioco. Sono riunioni strazianti. Pannella insiste nell'analisi, confabula al telefono con Mino Martinazzoli, attende dall'Abruzzo le risposte di "zio Remo" Gaspari, si consulta con la retroguardia socialista e già che c'è s'attarda nel tentativo di rianimare amebe liberali ormai spiaggiate. Vagheggia il reclutamento di nomi esotici o stranoti (quindi sputtanatissimi) mentre i giorni scorrono via veloci. Più volte provo a battergli il tempo: «Ma l'hai capito o no che se aspettiamo ancora non riusciremo mai a raccogliere le firme? Ci sono regioni al sud in cui già ce la siamo giocata. Chiudiamo 'ste cazzo di liste e partiamo oggi stesso con i tavoli per strada, salvando il salvabile!».
La storica pipì
Una volta tanto Marco non mi manda nemmeno affanculo, e questo aggrava la mia angoscia. Sta girando a vuoto, in cerca di un'intuizione che non arriva. Accade allora un fatterello che si rivelerà decisivo. Lorenzo Strik Lievers - storico dirigente radicale, persona deliziosa, uno tanto umile quanto poco modesto nella sua cifra intellettuale e politica (moneta ormai fuori corso, che oggigiorno circola il suo contrario) - decide a un certo punto di alzarsi e andare a pisciare.
Nella finta autobiografia "Io, Franco", Manuel Vasquez Montalban fa spiegare al Caudillo che impediva ai suoi ministri di recarsi in bagno durante le lunghissime riunioni di governo: chi domina il Paese deve innanzitutto saper controllare la propria minzione. Una sottile differenza con Pannella (campione libertario e quindi condannato all'esilio nel suo stesso Paese) che non va sottovalutata. Poco dopo uno Strik finalmente rilassato ci racconta infatti che nei bagni, dopo la sgrullata, ha incrociato il leghista Roberto Maroni. E che questi, saputo del nostro empasse, se n'è uscito con una frasetta sgocciolante sviluppi inattesi: «Ma scusa, perché non trattate con Berlusconi e Bossi la candidatura di alcuni di voi nei collegi uninominali in Lombardia e Veneto, sicuri e ancora liberi?». Avrei abbracciato entrambi.
Un minuto prima eravamo schienati dallo sconforto, adesso sembriamo tutti drogati di Gerovital. Marco si guarda intorno, sorride a labbra strette e rimugina (sta già decidendo di candidarsi anch'egli in un collegio uninominale: ma a Roma contro Gianfranco Fini, giusto per riequilibrare lo sbilanciamento a destra e nel nord). Con un veloce giro di telefonate scongeliamo in tutta Italia le liste sul proporzionale e nel frattempo sigliamo un accordo tecnico-elettorale con il Polo delle Libertà che prevede la candidatura di Marco Taradash, Giuseppe Calderisi, Paolo Vigevano, Elio Vito e dello stesso Strik Lievers. A tutti loro si aggiunge anche Emma Bonino. Una che soffre per non mostrar che s'offre e che, sacrificatasi per noi in Parlamento fin dal 1976, ogni volta faceva la ritrosa («No, basta, questa volta non mi candido») per poi capitolare all'ultimo con la faccia di chi ti sta facendo un favore. Per non dire di quando l'anno prima Marco la propose come segretaria del partito e lei in tutta risposta quasi svenne, e quindi dovemmo sospendere il congresso all'Ergife, e tutti a confortarla e a dirle che era la migliore finché mise fine alla manfrina e annunciò al microfono che accettava il gravoso compito... Capisco che oggi la cara Emma non sia contenta che qualcuno ricordi i voti da lei cercati e presi tra i ruttanti elettori padani e i beceri forzitalioti ma la storia è storia, così come è storia che senza Marco e la sua generosità avrebbe forse passato la vita a insegnare lingue nel paesino di Bra, altro che ministeri e commissariato europeo. E chiudiamola qui, che al pensiero di come lo tratterà negli ultimi mesi di vita - negandosi perfino al telefono - mi viene uno scciuppon de futta (i non genovesi vadano su un motore di ricerca) che manda in malora il tono scanzonato di questi ricordi. Stendiamo quindi sul suo senso di riconoscenza quel velo che diventata ministro deciderà di indossare a Teheran, dimenticandosi di aver manifestato per anni contro l'imposizione dello chador alle iraniane.
La partenza della campgana elettorale tra Villaggio e Celentano
Inizia così la campagna elettorale. Per noi si tratta di un'arrampicata libera di nono grado, sul ghiaccio e senza picozza. Il miracolo firmaiolo e militante questa volta non c'è stato: come qualcuno aveva previsto non siamo infatti riusciti a depositare le liste in Veneto, Umbria, Molise, Calabria e non mi ricordo più dove. Quanto a me, trascorro un mese sparpagliato tra il Piemonte (dove sono stato catapultato in posizione eleggibile) e Genova. Mi è stato affidato il ruolo di chaperon a Paolo Villaggio, candidato nel collegio uninominale del centro storico così come nel proporzionale in Liguria. In via di Torre Argentina sono preoccupati: «Mi raccomando, è un personaggio difficile. Tieni a bada il tuo carattere di merda». Come no. Appena ci incontriamo lo chiudo in una stanza e pianto gli occhi nei suoi: «Allora, caro Paolo, mi sa che devi mettere mano al portafogli» «Altrimenti?» «Altrimenti la tua candidatura verrà ricordata come una cagata pazzesca». Dieci minuti dopo mi ritrovo in tasca un assegno di 30 milioni di lire, che inizio a investire nell'acquisto di tutti gli spazi lasciati liberi nelle tv locali (ancora non lo sappiamo, ma quella sarà l'ultima contesa elettorale senza par condicio). Comincia per me un'esperienza straniante: mai stato così tanto in compagnia di un sampdoriano. E infatti non ci prendiamo granché. Lui diffida, io sopporto. Assecondo con impazienza il suo spleen zeneize («Qui da ragazzo comprai il mio primo paio di jeans», «In questo locale passavo i pomeriggi con Faber»), ascolto le sue lamentele da miliardario di sinistra («Cecchi Gori mi deve ancora un sacco di soldi») e mi faccio piacere la sua passione di collezionista di bottiglie di olio d'oliva. Peccato che poi, quando si tratta di buttarla in politica, le sue prime uscite pubbliche risultino fiacche ed esitanti. Belin, non ci siamo. Per fortuna una mattina, poche ore dopo aver ascoltato la Bonino ospite a "Il rosso e il nero" di Michele Santoro, se ne esce con una stringata analisi politologica: «Ho capito che Pannella mi ha fottuto!». Eureka. Preso dallo scazzo, Villaggio si limita da quel momento a fare la cosa che gli riesce meglio: recitare. E recitando diventa convincente, intrigante, spiazzante. Il che non gli impedisce – una volta spentesi le telecamere – di ritornare a essere una persona sfuggente, a tratti malmostosa e un filino contraddittoria. Come definire altrimenti uno che da candidato radicale continua a firmare editoriali ben retribuiti sulla prima pagina de l'Unità? Un esempio di bilocazione elettorale che due anni dopo verrà superato soltanto dall'immaginifico Vittorio Sgarbi, candidato per Forza Italia contro la Lista Pannella-Sgarbi (prova poi a spiegare, se ci riesci, la politica italiana a uno straniero).
Al consueto appello finale al voto apparecchiato dalla Rai – una mesta infilata di segretari di partito che supplichevoli promettono che d'ora in poi, giurin giurello, saranno bravi e buoni – mandiamo a sorpresa Adriano Celentano. Il Molleggiato si rivolge secco alle famiglie italiane: «Pannella non può restar fuori dal Parlamento e quindi mettetevi intorno a un tavolo e decidete chi di voi deve sacrificarsi votando la sua lista». Quel sacrificio lo faranno in molti, spingendoci di peso sopra l'asticella del 4 per cento. Fantastico no? No. Nel computo nazionale, per effetto delle nostre assenze in diverse regioni, ci blocchiamo infatti al 3,5 per cento e addio eletti (la sera del 28 marzo Villaggio mi chiama a casa da Cortina bello convinto di essere stato eletto e mi tocca aggiornarlo sulla nuvola fantozziana che ci ha grandinato addosso).
Pannella fuori dal Parlamento
Marco nel frattempo si è immolato contro Fini, resta fuori dal Parlamento e non verrà mai più eletto (e anche questo, se ti va, prova a spiegarlo a uno straniero). Qualcuno però è riuscito a salvarsi: sono i sei candidati alla Camera prestati a Bossi e Berlusconi nonché Sergio Stanzani e Francesca Scopelliti (compagna di Enzo Tortora), eletti inaspettatamente al Senato. Se quell'anno abbiamo evitato la Caporetto radicale lo dobbiamo insomma soltanto alla vescica di Strik, che ha colto il momento migliore per reclamare i suoi sacrosanti diritti. E dopo 'sta lunghissima pisciata, vado ad accendermi il terzo sigaro.
* Vittorio Pezzuto, giornalista, scrittore e già segretario nazionale Club Pannella
Nudi come vermi sul palco e a digiuno per salvare i referendum
“Ho spacciato hashish in strada”. Vittorio Pezzuto e la rivoluzione Radicale