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Welfare salute e comunicazione
La musica può aiutare e far bene al nostro sistema "corpo-mente-cervello"?

«Cercare di definire la musica è un po’ come cercare di definire la poesia: si tratta cioè di un’operazione felicemente impossibile». Negli ultimi decenni, la neuromusicologia si è addentrata nell'indagare i rapporti strettamente connessi fra cervello e musica, ed è infatti arrivata al punto di rintracciare fenomenologicamente – e dunque, sul piano descrittivo delle neuroscienze cognitive – il nesso fra i fondamenti della percezione sonora sia dal punto di vista della neurofisiologia che coinvolge l’apparato uditivo nelle sue relazioni con le sue strutture cerebrali – sia da quello del vissuto emotivo del soggetto riguardante il piano della neuroestetica e gli effetti soggettivi dell’ascolto musicale.

Una intuizione dal grande valore scientifico, se pensiamo all'effetto terapeutico della musica, che alcuni studi effettuati sui compositori, musicisti ed ascoltatori, hanno stabilito, al di là del mero gusto personale, alla cultura e all’esperienza musicale, possa identificare nella struttura di un brano alcune proprietà intrinseche (armoniche o melodiche) in grado di interagire con le strutture neurobiologiche innate del cervello.

L’esito delle ricerche neuroscientifiche confermano la teoria che nell’ascolto della propria «musica favorita o comunque, gradita all’ascoltatore, che induce quindi emozioni a valenza positiva come la gioia, il piacere o la tenerezza, attiverebbe l’area tegmentale ventrale (VTA), la corteccia striata, il circuito della ricompensa e la corteccia orbito-frontale regioni che supportano il piacere e la soddisfazione. Al contrario, il senso del pathos o melodramma – sentirsi emotivamente colpiti al cuore, provare nostalgia o dolore – sarebbe associato all’attivazione cerebrale dell’insula (dolore psicologico), della corteccia cingolata (empatia e connotazione emotiva di eventi), della corteccia prefrontale ventromediale (elaborazione delle emozioni) e dell’ippocampo (memoria episodica). 

Infine, il senso di agitazione e le forti emozioni negative come la tensione, l’eccitazione o l’ansia, attiverebbero invece, l’amigdala e le aree sensoriali motorie. Rispetto a tali corrispondenze neurali, in generale si può affermare che le emozioni più facilmente inseribili nelle tre macro-categorie estetiche (senso del sublime, vitalità e disagio) suscitano attivazioni neurali piuttosto distintive e sono piuttosto riconoscibili nella loro localizzazione neurale, mentre gli stati d’animo complessi «tendono a condividere parte dei circuiti emotivi».

Le emozioni suscitate dall’ascolto di certi brani possono, quindi, rappresentare anche un rischio, se si guardano da un punto di vista di reazioni intime e profonde che, se non controllate, possono sfociare in atti spontanei, reattivi all'emozione stessa. In tal senso si ricorda quanto Freud affermava riguardo alla tonalità affettiva del soggetto, risvegliata dall’emozione provata durante l’ascolto musicale. La musica è un “suono organizzato”, e lo studio dei suoi effetti sul sistema Mente- Corpo e Cervello va nella direzione di un’analisi del fenomeno “dell’ascolto musicale”,e puntuale verifica su campionatura attendibile, atta ad identificare nella mente delle aree specifiche di attivazione la cui formulazione sia mediata dall’ipotesi di meccanismi cerebrali corticali e sottocorticali complessi, a volte, in reciproca sovrapposizione – laddove, tuttavia, il viatico per l’inconoscibile resta pur sempre, un punto di apertura.

La musica è la prima forma di linguaggio,  protolingua di un linguaggio universale che nasce dal canto. Gli ominidi, nostri predecessori, comunicavano modulando il tono, la durata e la prosodia di alcuni suoni. Modulazioni prosodico/melodiche fisse corrispondevano perciò a precisi significati, mentre le vocalizzazioni, ovvero il canto, erano utilizzate per comunicare informazioni, esprimere emozioni, paure o dare informazioni. Dal punto di vista evoluzionistico, la capacità di cantare precede quindi la capacità di parlare articolando i fonemi. Potremmo quindi dire che il nostro cervello è plasmato su questa abilità espressiva. Un’acquisizione scientifica non lontana dall’intuizione wagneriana: «il più antico, vero, bello strumento, da cui origina la nostra musica, è la voce umana», confermata ulteriormente dalla vocalizzazione infantile nell’ascolto dello stimolo materno, per giungere infine, alla complessa analisi della neuroanatomia funzionale del cervello dei cantanti, dove l’abilità canora si basa su un hardware neurale estremamente intricato e complesso.

Possiamo, quindi, certamente affermare, ad onor del vero e dai risultati scientifici emersi, che la musica è originaria e la sua universalità non può prescindere dal riferimento a quel ritmo primordiale o “protosuono” che l’essere umano percepisce nell’epoca prenatale. Già Groddek – contemporaneo di Freud – nel 1925 sosteneva senza alcuna prova scientifica, che i dati fisiologici del periodo prenatale, durante il quale il feto non può scoprire, attraverso le sue impressioni, altro che il ritmo regolare del cuore materno e del proprio, mettono in luce i mezzi di cui si serve la natura per infondere profondamente nell’uomo il senso della musica poiché «la musica è essenzialmente ritmo e cadenza e, in quanto tale, si trova ancorata nelle più grandi profondità dell’umano». 

“Gli effetti benefici della neuromusicologia, ad esempio su alcuni disturbi del linguaggio come la dislessia, nonché la funzione fondamentale del ritmo e della sincronizzazione neurale, e gli effetti “positivi ” per alcune malattie neurodegenerative, così come per l'applicazione del protocollo scientifico messo a punto, ed adottato presso il Centro Clinico Ulivi, di Pistoia,  da me diretto- afferma la D.ssa Sabrina Ulivi- innovativo ed unico in Italia, che abbina la Psicoterapia ad altre discipline inerenti i principi cardine della Psiconeuroimmunomodulazione, come la musicologia, abbiano, di fatto nella sua applicazione, permesso di riscontrare effetti terapeutici positivi.

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