Finanza

Che senso ha ancora il credit crunch?

L'ex assessore al Bilancio capitolino Marcello Minenna era già al lavoro all'assestamento di Bilancio "politico" per la Giunta Raggi e, tra pulizia dei conti e caccia alle cosiddette "poste fantasma", aveva già recuperato circa 55 milioni di euro. Acqua passata.

Ma in un recente articolo pubblicato su www.glistatigenerali.com da Marcello Minenna, docente alla Bocconi e alla London School of Economics, si affronta un tema più vasto, con argomentazioni estremamente valide: il credit crunch.

Con il termine credit crunch si indica un calo significativo (o inasprimento improvviso delle condizioni) dell'offerta di credito alle aziende, in grado di accentuare la fase recessiva.

Il credit crunch avviene solitamente al termine della fase di espansione, quando le banche centrali alzano i tassi di interesse al fine di raffreddare l'espansione ed evitare il rischio inflazione, spingendo gli istituti di credito ad alzare i propri tassi di interesse e chiudendo l'accesso al credito per chi non può permettersi la spesa.

Ora però ci troviamo in piena deflazione. Che senso ha ancora il credit crunch?

"Sta terminando un’altra lunga estate per le banche europee" afferma Marcello Minenna "Nonostante i risultati degli stress tests dell’EBA pubblicati il 29 luglio scorso siano stati tutto sommato rassicuranti, il sistema bancario dell’Eurozona rimane sotto pressione.

Il problema dei non performing loans (NPL) nei Paesi Periferici fa crescere le esigenze di ricapitalizzazione del settore (Monte dei Paschi è un caso esemplare, ma certamente non l’unico) mentre non si placano le inquietudini sulla gestione del portafoglio derivati di Deutsche Bank, ripetutamente sotto stretta osservazione del mercato".

Dall’inizio del 2016, a causa del bail in, i valori di borsa delle principali banche europee sono scesi in media del 30%, e ancor più con la Brexit, mentre il mercato azionario ha perso solo il 10%; lo shock Brexit è stato riassorbito dalle borse, ma il settore bancario non è riuscito.

"La sinergia negativa di tutti questi fattori (elevati prestiti in sofferenza, incertezza del quadro normativo e bassi tassi di interesse) ha generato un imponente credit crunch nei confronti dell’economia reale che ha soffocato la capacità di ripresa del settore industriale e manifatturiero, spesso in un contesto dove il canale bancario rappresenta l’unica possibilità di finanziamento" prosegue Minenna.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale i prestiti non performing in Italia raggiungono l’astronomica cifra di 360 miliardi di euro, circa 1/3 del totale stimato a livello europeo.

Dopo un approfondito esame della situazione, l'economista conclude: "Appare una luce in fondo al tunnel del credit crunch, con alcune ombre che permangono. Ovviamente, la strada è ancora lunga: la situazione dei sistemi bancari dei Paesi Periferici necessita di una soluzione sistemica, che sia coordinata a livello comunitario e che coinvolga ovviamente la Bce".

La soluzione potrebbe essere un progetto massiccio di acquisto di crediti in sofferenza cartolarizzati, superiore all’attuale programma della BCE (fermo a solo 20 miliardi) e mutuare l’impostazione del programma TARP (Troubled Asset Relief Program) varato anni fa dal Tesoro USA: acquisti a ritmi sostenuti per almeno 500 miliardi di euro, accompagnati da ricapitalizzazioni forzate con fondi governativi, ma a condizioni molto precise: il governo come azionista privilegiato, il divieto di pagare dividendi per diversi anni, il ricambio forzoso del management e l’avvio automatico di azioni di responsabilità obbligatoria quando ci sia evidenza di cattiva gestione o prestiti in conflitto di interesse.

Paolo Brambilla