Vecchioni: "La velocità ha reso l'esistenza piatta. Non c'è più fame di senso"
Veltroni intervista il cantautore e poeta in occasione del suo 80esimo compleanno: "Sta sparendo la parola, sostituita da emoji"
Vecchioni: "Stiamo perdendo la meravigliosa bellezza delle parole"
Da qualche tempo la politica editoriale del Corriere della Sera è quella dell’intervista e la scelta del direttore Luciano Fontana si sta rivelando vincente. Infatti l’opinionismo è importante ma per il giornalismo ancor più importanti sono i fatti e fare interviste a personaggi noti è una scelta vincente perché sono, tecnicamente, “fonti primarie” di notizie. Ieri è uscita una bella intervista di Walter Veltroni a Roberto Vecchioni per i suoi 80 anni.
Il cantautore brianzolo ripercorre la sua vita, i suoi successi, i suoi insuccessi e si sofferma sulla funzione dello scrivere, e di quello “scrivere in musica” che poi il mestiere del cantautore. Vecchioni ci parla dei suoi sogni, solo parzialmente realizzati. Alcune considerazioni diremmo purtroppo inattuali sulla nostra società sono interessanti. “Il reale domina sempre di più il mondo e, contaminandosi con la tecnologia e la tecnica, con il consumo e la velocità, ha reso l’esistenza piatta, terragna. La dimensione ideale è evaporata, quel che resta è sfuggente, spezzato, disunito. Non c’è più un afflato come quello che in certi momenti ha mutato il destino collettivo: la Rivoluzione francese, la Resistenza. Si aveva fame di senso, di valori, di ideali”.
E poi una considerazione fondamentale sullo scrivere: "Non ci sono più le parole. Pasolini diceva che c’è una differenza tra progresso e sviluppo. Aveva ragione, la forbice si è allargata, sempre di più. Dal punto di vista dello sviluppo può darsi che noi si stia entrando in una fase in cui la parola non serve più, sostituita da emoji, immagini, loghi, segni.
Dal punto di vista del progresso siamo alla frutta, se perdiamo la meravigliosa bellezza delle parole. Perché le sfumature, le intercapedini che esistono tra una parola ed un’altra, il prisma di colori che esse contengono, sono decisive per l’intendimento dell’anima. L’anima non è un monolite, ha bisogno di tante sfumature per essere all’altezza della persona che incontri. Ogni parola racconta un’intenzione. Non esistono equivalenze, né in poesia né in letteratura. La parola è una, quella devi usare; se ne scegli un’altra sbagli, confondi il pensiero di chi ti è vicino e non ti racconti come vorresti".
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Ed è questo il punto perfettamente centrato da Vecchioni. Siamo entrati in una fase convulsa dello sviluppo della società in cui assistiamo a numinosi fenomeni di cambiamento, ma in peggio. Stiamo “perdendo la meravigliosa bellezza delle parole” a scapito dell’immagini, delle emoji, delle fotografie o peggio ancora dei selfie. Ma l’anima ha bisogno di tutte quelle “sfumature” del linguaggio che permettono di fissare il nostro pensiero, di strutturarlo, di chiarirlo, di costruirlo, di modellarlo in funzione dell’ ”altro” in cui il significante e il significato si inseguono tra di loro e costruiscono nella dinamicità il loro rapporto. L’immagine è invece brutale, l’immagine “uccide”, non chiarifica ma spiattella la sua crudezza, la crudezza della realtà. Fondamentale sul tema il saggio del filosofo Walter Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”.
Con l’avvento dei telefonini stiamo regredendo al livello dell’immagine che vince sempre sulla parola, sullo scritto. Non per niente l’immagine è un linguaggio universale che comunica ma non spiega, non interpreta le sfumature della realtà. Solo l’Uomo ha il linguaggio, la scrittura. Il linguaggio –come diceva Wittgenstein- è connesso con la coscienza. Le forme di vita superiore sviluppano un linguaggio sempre più articolato mentre quelle inferiori no. Tra un calamaro e un poeta c’è di mezzo il linguaggio.
E se il simbolo spesso è una forma aggiunta di significato occorre fare attenzione a che non diventi una porta aperta solo sull’immagine, facendo quindi regredire invece che avanzare. E poi Veltroni chiede a Vecchioni di Dio e se c’è un momento preciso in cui l’ha ritrovato. Una domanda pudica nei confronti di un ottantenne già ateo e materialista, che ha “fatto le barricate” della contestazione del ’68. Sorprendentemente l’artista risponde che: «Sì c’è una canzone che lo spiega.
È “La stazione di Zima”. Nasce da Evtuscenko. Io sono in treno con una persona, con qualcuno che è probabilmente Dio. Lui mi dice “vieni con me, ti porto in un posto meraviglioso”. E io rispondo di no. Sono ancora nell’incertezza tra il laico e il sacro. Dico no e scendo alla prima stazione che c’è, Zima. È orribile, c’è un solo vaso di fiori ed una sola luce, che si rompe sempre. Però è la terra e io voglio vivere. Pensavo, come dice Pasternak, che questa vita non è un’anticamera, è già una sala ed è questo l’importante. Voglio vivere prima tutta la vita e poi vediamo se… Ma in quel vediamo c’era già l’idea che non tutto finisse in questa sala.
Che ce ne fosse un’altra, molto più comoda e luminosa. E proprio ragionando sull’umiltà degli umani, sulle sconfitte e le sofferenze, sulle ingiustizie subite, sul male che c’è nel mondo e che spesso ci domina, mi sono detto che non può non esserci una contropartita. Deve esserci qualcosa, perché non può finire così». Zima in russo significa “inverno”. È una città che si trova in Siberia ed è dove nacque il poeta e scrittore Evtuscenko che le dedicò una famosa poesia, appunto “La stazione di Zima” che Vecchioni mise in musica nel 1997.
Il dialogo tra l’uomo e Dio sul treno che porta a Zima è la celebrazione stessa dell’esistenza e della sua straordinaria grandezza e bellezza. Forse Dio è solo un simbolo di un linguaggio molto elevato, quello dell’anima, forse esiste forse non esiste, come canta Vecchioni, ma comunque apre le porte dell’emozione come lo fa questa bella intervista di Veltroni.