Arvedi, forni green e caro-energia: alla siderurgia servono "nervi d'acciaio"

La nuova mappa dell'acciaio italiano dopo il closing della cessione di Ast ad Arvedi (con l’incognita del Pnrr)

di Marco Scotti
Acciaierie Arvedi
Economia
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Il risiko dell'acciaio fra l’aumento dei prezzi delle materie prime, il caro-energia e la sfida della riconversione

Con l’acquisizione di Ast (Acciai Speciali Terni) da parte di Arvedi, si è creato un nuovo leader nel mondo della siderurgia, capace di produrre 5,5 milioni di tonnellate di acciaio grazie allo sforzo di oltre 6.000 dipendenti divisi tra lo stabilimento umbro e quello di Cremona. Arvedi ha rilevato l’azienda dalla tedesca Thyssenkrupp che pure mantiene una quota del 15% dell’acciaieria e ottiene un beneficio economico di circa 600 milioni di euro.

Arvedi, con le spalle decisamente più larghe, supera di slancio Acciaierie d’Italia, l’ex-Ilva che lo scorso anno si è fermata a “sole” 3 milioni di tonnellate a causa del fermo dell’altoforno numero 4. Ma che momento sta vivendo l’intera industria siderurgica? E che spazio può trovare un comparto come questo – definito hard to abate, ovvero, come si legge nel Pnrr, “caratterizzati da un'alta intensità energetica e privi di opzioni di elettrificazione scalabili” – in un’economia che deve necessariamente votarsi al green?

Partiamo dallo stato attuale delle cose. La siderurgia italiana attualmente dà lavoro a oltre 33mila persone, è la seconda n Europa dopo quella tedesca e fattura quasi 60 miliardi con player come Duferco, Arvedi di Cremona, Danieli di Buttrio, Feralpi di Lonato del Garda, le Acciaierie Venete di Padova, Ori-Martin di Brescia, FinMar (Marcegaglia) di Mantova.

Nel Pnrr si riconosce l’importanza della siderurgia, ma si sostiene la necessità di renderla più sostenibile. Per questo sono stati destinati due miliardi alla sperimentazione dell’idrogeno nel comparto, riconoscendo a quell’elemento un ruolo rilevante nell’ottica di decarbonizzazione. Un ciclo dell’acciaio basato su tecnologie più sostenibili “con metano e fusione in un forno elettrico genera circa il 30 per cento in meno di emissioni di CO2 rispetto al ciclo integrale, e il successivo sviluppo con idrogeno verde aumenta l’abbattimento delle emissioni al circa 90 per cento” si legge nel Pnrr.

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“Essendo l’Italia uno dei più grandi produttori di acciaio, secondo solo alla Germania a in Europa – aggiunge il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza - , questo intervento mira quindi anche alla progressiva decarbonizzazione del processo produttivo dell'acciaio attraverso il crescente utilizzo dell'idrogeno, tenendo conto delle specificità dell'industria siderurgica italiana. La transizione verso l’idrogeno sarà graduale e distribuita nel tempo con l’obiettivo di sviluppare competenze e nuove tecnologie in modo competitivo”.

Tenendosi alla larga dai dibattiti sulla necessità di bonifica e di abbattimento delle emissioni per cui l’altoforno dell’ex-Ilva è ancora spento, bisogna anche ricordare le differenze tra un altoforno e uno elettrico. Il secondo ha emissioni dieci volte inferiori a quelle del primo.

Le differenze tra un altoforno e uno elettrico

L’altoforno è alimentato a minerale di ferro, il secondo invece ricicla rottami, cioè acciaio recuperato da demolizioni o scarti di lavorazione soprattutto dell’industria meccanica. Dunque, non dovrebbe esserci partita, se non fosse per un dettaglio: che l’acciaio primario può essere quasi esclusivamente tramite altoforno. Non si tratta di una differenza di poco conto. Se, dunque, si vuole proseguire sulla strada della decarbonizzazione e della riduzione delle emissioni – iniziativa in realtà non più procrastinabile – è necessario trovare meccanismi di compensazione a supporto dell’industria siderurgica.

Anche perché l’aumento dei prezzi delle materie prime e l’esplosione dei costi delle bollette rischiano di rendere ancora più complicato il momento. Nei giorni scorsi il presidente di Federacciai Alessandro Banzato ha criticato aspramente il sistema dei certificati verdi, definendolo un “mercato drogato, perché negli anni la parte finanziaria è cresciuta in maniera sproporzionata. È necessario riagganciarlo ai valori reali, se non vogliamo che le risorse siano interamente assorbire da questi certificati e non ce ne sia per investire nella riduzione delle emissioni”.

Insomma, al di là dei movimenti di M&A, per dare vigore e supporto concreto alla siderurgia servono… nervi d’acciaio.

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