Dal Pnrr 6 mld per innovare le Pa. Ma i governi non sono in grado di spenderli

La transizione digitale in Italia? Dire che è in ritardo è un eufemismo. Eppure i fondi (dall'Ue) ci sono, ma i governi...

di Ulisse Spinnato Vega
Colao Butti Pisano Zangrillo
Economia

Transizione digitale, ben 6 miliardi di euro dal Pnrr. Ma i nostri governi non sono stati in grado di utilizzarli

E pensare che il Pnrr dedica 48 miliardi di euro all’obiettivo chiave della transizione digitale, di cui circa 6 miliardi vanno all’innovazione tecnologica della Pubblica amministrazione e, in particolare, poco meno di 2 miliardi alla svolta informatica delle Pa locali.

Numeri roboanti che rischiano di restare sulla carta senza un corposo impegno, finora largamente inattuato, sul reclutamento di nuove figure professionali e senza una spinta alla formazione e alle competenze digitali dei travet pubblici.

Ma poi il governo, anzi, i governi dovrebbero quantomeno dare seguito agli obiettivi fissati sul percorso di avvicinamento degli italiani ai servizi informatizzati delle amministrazioni, soprattutto nelle aree periferiche, disagiate e rurali del Paese. Un tema divenuto di importanza vitale durante la pandemia, che ha segnato un cambio di paradigma nel rapporto tra Stato e cittadini.

Malgrado ciò, pare che la lezione non sia stata appresa fino in fondo dai nostri apparati istituzionali. Spulciando tra i decreti attuativi delle norme primarie ancora mancanti, salta all’occhio un provvedimento che fa capo a una misura risalente addirittura ai tempi del primo esecutivo Conte.

Una legge del giugno 2019 (la numero 58 di conversione del decreto 34) stabilisce infatti che servano uno o più Dpcm per regolare l’individuazione “delle aree di servizi digitali delle pubbliche amministrazioni a cui è possibile accedere anche tramite strutture e piattaforme tecnologiche di Poste italiane”, nonché la “determinazione delle categorie di utenti ammessi alla fruizione dei servizi individuati”.



Il bello è che la norma definisce “strategico” l’obiettivo “di assicurare lo sviluppo del processo di digitalizzazione, nell'interesse generale e per la crescita del Paese, attraverso soluzioni innovative e tecnologiche che consentano di accedere in forme semplificate ai servizi della pubblica amministrazione, ottimizzandone la fruizione”.

Il Recovery era ancora di là da venire, così come il Covid, eppure al tempo il governo pensava al “superamento del divario digitale” e alla “coesione sociale e territoriale” per “conseguire maggiore efficienza, tempestività e uniformità in tutto il territorio nazionale nell'erogazione di servizi pubblici anche in modalità digitale”, anche allo scopo di far crescere il commercio elettronico.

Tutto molto giusto, peccato che ben quattro governi finora succedutisi non si siano ancora preoccupati di scrivere il regolamento attuativo, almeno fino alla data del 20 febbraio scorso.

Il provvedimento non reca termini espliciti di scadenza, secondo quanto riferisce l’Ufficio per il programma di governo di Palazzo Chigi, ma dire che siamo in ritardo è un eufemismo. In particolare, l’inerzia fa capo al Dipartimento della Funzione pubblica - oggi guidato dal ministro Paolo Zangrillo - in veste di amministrazione proponente.

Per carità, il Dfp è in buona compagnia, se si considera che sempre alla data del 20 febbraio il governo Meloni ha ereditato 419 provvedimenti attuativi dalle due precedenti legislature, cui ha già aggiunto 135 testi secondari di propria produzione, stando al monitoraggio confezionato dal Servizio per il controllo parlamentare.

Un carico che, certamente, è stato in parte appesantito prima dalle misure straordinarie contro la pandemia e poi dalle norme per far fronte alla crisi energetica derivata dal conflitto russo-ucraino. Eppure ci sono ancora 44 provvedimenti da adottare che risalgono addirittura alla legislatura 2013-2018 e che gridano vendetta.  

Sui servizi digitali il ritardo è comunque un vero peccato, perché l’infrastruttura di Poste può essere decisiva per supportare la digitalizzazione delle prestazioni delle Pa. Non a caso, il colosso di Viale Europa ha presentato poche settimane fa il progetto “Polis”, una rete di sportelli unici digitali di prossimità nei comuni fino a 15mila abitanti per facilitare l’accesso ai servizi, attraverso una piattaforma multicanale. In quell’occasione lo stesso Zangrillo esultò: “Acceleriamo sulla transizione digitale”. L’accelerazione, se c’è, non sembra proprio bruciante.    

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