Economia
De Benedetti, la famiglia che poteva essere potente e scelse di essere ricca
Dall'avventura fallimentare in Fiat alla miopia di Olivetti fino alla tranquillità di Sogefi
De Benedetti, la famiglia che ha scelto di essere ricca e non potente
Olivetti, Fiat, Sorgenia. Non sono consigli per gli acquisti di qualche gestore di fondi, ma l’elenco dei principali fallimenti di Carlo De Benedetti. L’ingegnere, come ama farsi chiamare forse per contrapporsi all’Avvocato, ha collezionato qualche scivolone di troppo. Prendiamo la Fiat: arriva al timone dell’azienda della famiglia Agnelli dopo aver portato in dote la sua impresa di acciaio e ricevendone in cambio il 5% delle azioni. Mica male, no? L’ingegnere, all’epoca 42enne, durò invece pochi mesi prima di uscire dalla porta di servizio con un bel malloppo. Che cosa accadde in quei giorni rimane un mistero, l’ingegnere si limitò a dire che l’azienda perdeva “una barcata di denaro” (sue precise parole). Con tanti saluti al sogno di diventare il capo della Fiat, dopo essere arrivato al vertice grazie ai buoni uffici di Umberto Agnelli che fu suo compagno al San Giuseppe di Torino tra la fine delle medie e l’inizio del ginnasio.
Da lì la carriera imprenditoriale cresce con andamenti ondivaghi. Entra in Cir (Concerie Industriali Riunite) e ne fa una grande holding industriale. Ottima mossa, no? Più o meno. Compra Olivetti, un meraviglioso polo d’innovazione e ne fa un realtà ancora più importante. Capisce che si deve puntare su computer, fax, stampanti e in effetti riporta l’azienda in utile. Ma commette un errore da matita blu: non scommette su Apple. Durante un viaggio in California, infatti, vuole la leggenda che due giovanotti di belle speranze – Steve Jobs e Steve Wozniak – gli abbiano chiesto di puntare sulla loro “garage company”. E l’Ingegnere disse no. Madornale errore. Sua la responsabilità di aver lasciato l’Olivetti, nel 1996, in braghe di tela nelle mani di un Roberto Colaninno che l’anno dopo la fuse con Telecom dando vita alla madre di tutte le tragedie industriali del nostro Paese. L’attuale Tim fu gravata da un debito monstre da cui non è più riuscita a liberarsi.