Disfatta Adidas, persi 39 milioni: le sneakers tedesche non camminano più
Adidas inizia il 2023 nel peggiore dei modi, ma era una tempesta annunciata. Il risultato va contestualizzato con i cambiamenti del mercato di settore
Adidas perde 39 milioni di euro in un trimestre: storia di una crisi annunciata
Il bilancio del primo trimestre 2023 per Adidas è impietoso: il brand ha perso 39 milioni di euro, contro un guadagno di 482 milioni dello stesso trimestre 2022. L’utile operativo infatti è stato di 60 milioni, in calo dell'87% su base annua, mentre il margine si è abbassato dal 49,9% al 44,8%. A "inguaiare" i conti è stato principalmente il “caso Yè”, scoppiato ad ottobre dopo le dichiarazioni antisemite del rapper americano Kanye West, con cui lo sportwear tedesco portava avanti una partnership milionaria per la linea di sneakers Yeezy.
Tuttavia, le vendite sono rimaste perlopiù stabili, nonostante i 400 milioni di euro persi dalla collezione ritirata a causa dell’incidente diplomatico. L'impressione è che lo storico sportwear tedesco stia patendo tutte le sollecitazioni - interne ed esterne - che gli vengono sferrate senza esclusione di colpi.
Il nuovo capo del gruppo, Bjorn Gulden, aveva già “messo le mani avanti" a inizio anno, prospettando che il 2023 sarebbe stato “un anno caotico con cifre deludenti”. Eppure Gulden è riuscito a vedere il bicchiere mezzo pieno: “Questo risultato è stato migliore del previsto e ci rende ottimisti per il resto dell'anno. Il calo del 20% delle vendite in Nord America (-5% se si esclude Yeezy) è in linea con la nostra strategia di sell-in, legata agli elevati livelli di inventario e agli sconti praticati".
Quanto alle rimanenze delle sneakers Yeezy, l’azienda tedesca fa sapere che continua a valutare opzioni future per il loro utilizzo. Le guidance riflettono l’aspettativa di una perdita di ricavi di 1,2 miliardi di euro, per la potenziale non vendita degli stock esistenti. Se l'azienda dovesse decidere irrevocabilmente di non riutilizzare alcun prodotto Yeezy esistente in futuro, sconterebbe la potenziale svalutazione dell'inventario Yeezy esistente e ridurrebbe l'utile operativo di 500 milioni di euro quest'anno.
Per Adidas tante spese in vista, tra ammissioni di colpa e progetti per il futuro
A ciò si aggiunge la previsione di Adidas di sostenere (in aggiunta) dei costi una tantum - circa 200 milioni di euro nel 2023 - legati alla revisione strategica in corso dell'azienda, volta a tornare a una crescita redditizia a partire dal 2024. La stima della perdita operativa prospettata dal gruppo Adidas è stata pubblicata lo scorso febbraio per un ammontare totale di 700 milioni di euro per il 2023, come ha pronosticato l’azienda stessa in chiusura del primo trimestre dell’anno corrente. La visione ai piani alti è senz’altro molto lucida e pragmatica, come dimostrano le dichiarazioni alla presentazione della guida finanziaria: “I numeri parlano da soli. Al momento non ci stiamo comportando come dovremmo", e ha poi aggiunto:
“Il 2023 sarà un anno di transizione per gettare le basi per tornare ad essere un'azienda in crescita e redditizia. Ci concentreremo completamente sul consumatore, sui nostri atleti, sui nostri partner di vendita al dettaglio e sui nostri dipendenti adidas”. Infine Gulden ha concluso, con tono scaramantico: “Abbiamo tutti gli ingredienti per avere successo: un grande marchio, persone fantastiche, partner fantastici e un'infrastruttura globale seconda a nessuno. Dobbiamo rimettere insieme i pezzi, ma sono convinto che col tempo faremo tornare a splendere Adidas. Ma abbiamo bisogno di un po' di tempo".
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La crisi delle sneakers: le cause della parabola discendente
Tutti gli stakeholders del mercato delle sneakers stanno soffrendo una grossa crisi e non da ora. Il problema infatti non è circoscritto solo a casa Adidas, ma investe tutte le sue competitor. Nonostante il recente report di BoF Insights abbia rilevato come proprio le sneakers rappresentino circa il 55% degli assortimenti di footwear dei brand di lusso (che la riconfermano come una categoria irrinunciabile) altri fattori indicano che la predominanza del modello di scarpe sportive stia svanendo, travolta com’è dalla diffusione di mocassini, slip-on e clog di vario tipo. Infatti, sempre secondo BoF - che ricava i propri dati da Euromonitor- “nel 2022 le vendite globali di sneakers hanno raggiunto i 152,4 miliardi di dollari, con un aumento del 2,7% rispetto all'anno precedente, ma con un drastico rallentamento rispetto al picco del 19,5% registrato nel 2021”.
Sono diversi i colpevoli di questa decelerazione. Parafrasando l’adagio filosofico di Giambattista Vico addossando la responsabilità alla natura ciclica delle tendenze - una spiegazione pigra secondo alcuni - i deterrenti principali sono i problemi di approvvigionamento e di inventario sofferti dai piccoli e grandi brand grandi a causa della pandemia e da un anno a questa parte dall'attuale conflitto in corso tra Russia e Ucraina. Inoltre, influiscono anche le fluttuazioni del mercato cinese (sempre più nazionalista). Il che nel 2021 ha fatto mancare ad Adidas 5 miliardi di euro. Pechino ha scelto di privilegiare i brand autoctoni in seguito alle polemiche sul rifiuto di alcune aziende occidentali di acquistare il cotone dello Xinjiang. In proposito infatti, erano emersi alcuni report indipendenti che dimostravano come molto di questo cotone pregiato cinese fosse raccolto e lavorato dalle minoranza degli uighuri, costretti ai lavori forzati. Così le aziende occidentali hanno interrotto le importazioni per via del blocco delle licenze imposto dalla Better Cotton Initiative (Bci), la maggiore organizzazione non profit che si occupa della sostenibilità della filiera del cotone.
Adidas & Co, le sneakers che hanno "stufato". Le ragioni
Non da ultimo, a dare il colpo di grazia, la stanchezza dell'utenza che, per anni, ha assecondato l’esplosione frenetica di modelli spacciati per i più esclusivi di tutti ma che - come è evidente - hanno poi raggiunto il punto di saturazione e di esclusivo gli è rimasto solo il prezzo. Questo in netta controtendenza con il valore percepito dall’utenza, che destina certe cifre a brand e case di alta moda ben più blasonate. Parliamo di Louis Vuitton, Disquared, Gucci, Prada e tutta la gamma del fashion di lusso che assicura uno standard qualitativo molto distante dai materiali sintetici - plastica, reti di nylon, poliestere e schiuma di poliuretano - in cui Adidas et similia si stanno rifugiando per abbattere i costi.
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Al cliente però arrivano prezzi lievitati senza un appeal altrettanto raffinato in chiave di restyling del brand, di investimento sulle materie prime e ristrutturazione della filiera produttiva. Oggi a restare profittevoli sembra siano rimaste solo le collaborazioni con i rapper come West o il corrispettivo di turno tra i campioni nel mondo dello sport, che si improvvisano "altro", forti della propria popolarità globale. La realtà però è che non sono nè stilisti, nè imprenditori, nè esperti in relazioni esterne. E quando capita che - più o meno in modo prevedibile - "la facciano fuori dal vaso" mandando in malora il business di brand decennali come Adidas, forse è l'occasione giusta per interrogarsi anche sulle proprie responsabilità e sulla direzione in cui sta andando il mercato fuori dal clamore del marketing e degli annunci acchiappa engagement sui social.