Il Brera calcio vuole fare l'americano e arriva al Nasdaq: il progetto
Una storia fatta di impatti positivi sul tessuto sociale della città di Milano e non solo. Ora è il momento di portare questo modello all'estero
Il Brera Calcio pronto a sbarcare al Nasdaq
Un progetto ambizioso, visionario, futuristico e futuribile: il Brera Calcio, la terza squadra di Milano, sarebbe pronto a sbarcare al Nasdaq, il segmento dedicato ai titoli tecnologici della Borsa di New York. La formula è un po’ più complicata della mera semplificazione giornalistica, ma il presidente Alessandro Aleotti, intervistato da Affaritaliani.it, è convinto della bontà del progetto e della fattibilità di un modo diverso di affrontare il calcio, specialmente quello non professionistico.
Aleotti, allora vi quotate in Borsa?
Mi sembra una eccessiva semplificazione. Ma sì, attraverso un mio vecchio amico banchiere, Chris Gardner, costituiremo una società cui verranno conferire le azioni del Brera Calcio e poi questo veicolo verrà quotato al Nasdaq.
Facciamo un passo indietro: eravamo rimasti a quando il Brera, con Walter Zenga allenatore, voleva diventare la terza squadra di Milano, entrare nel mondo del calcio professionistico e insidiare la leadership di Inter e Milan. E poi che cosa è successo?
Siamo sempre stati una società dilettantistica, con una storia di intelligenti progetti calcistici su Milano. Poi abbiamo provato a lanciare una sorta di candidatura a terza squadra della città, giocavamo all’Arena, avevamo Zenga come allenatore. Ma era un progetto un po’ velleitario che abbiamo accantonato rapidamente. Ci siamo quindi orientati, per usare un termine molto in voga adesso, verso una logica Esg, utilizzando uno strumento universale, appunto il calcio, per portare avanti interventi che avessero effetti positivi su altri ambiti.
Ci spieghi meglio la vostra idea
Abbiamo declinato il calcio su molti versanti, principalmente su quello sociale. Ad esempio, abbiamo portato nel carcere di Opera il campionato già nel 2004, in collaborazione con Federcalcio e Ministero della Giustizia. Un progetto pilota di cui poi hanno beneficiato altre cinque carceri. In questo modo abbiamo aperto una finestra sul mondo per le prigioni italiane: ogni settimana si doveva fare una partita, sistemando delle deroghe regolamentari perché ovviamente non si poteva giocare in trasferta. Abbiamo anche sviluppato un progetto per coinvolgere le persone Rom per integrarle meglio nel tessuto sociale.
E poi?
Poi abbiamo provato a rispondere all’annosa questione se qualsiasi tifoso possa essere allenatore o dirigente sportivo e per un anno abbiamo affidato la gestione della squadra e del mercato proprio a persone che non lo facevano di mestiere. La risposta alla domanda è “no”, tant’è che siamo stati retrocessi. Abbiamo anche collegato il calcio all’arte, con i giovani che venivano nella nostra sede per svolgere action painting nell’intervallo tra un tempo e l’altro. Abbiamo cercato di costruire un modello che desse senso al dilettantismo attraverso un progetto, che è stato riconosciuto dalla Uefa, che mette insieme i nove club dilettantistici più iconici d’Europa. Si tratta di squadra che vogliono scientemente rimanere nel non professionismo, senza quelle frustrazioni che caratterizzano altre compagini che aspirano ad arrivare alla Serie C e oltre. Un torneo fantastico con vero e sano spirito agonistico. Abbiamo creato una scuola calcio ludica che ha grande successo, che sperimenta molti buoni utilizzi.
Dunque come si coniuga tutto questo spirito decubertiniano con la voglia di andare sul Nasdaq?
Si sposa in maniera perfetta. Avevamo una nostra sostenibilità economica, un unicum nel mondo del calcio non professionistico. Non abbiamo mai provato a fare passi avventati, tant’è che abbiamo gestito solo per un anno la Berretti del Brescia, la squadra dei giovani. Ma nulla di particolarmente rilevante, ci siamo sempre dedicati a portare avanti progetti d’inclusione nel calcio. Negli Stati Uniti abbiamo vinto un award per il social impact e questo è stato un primo “gancio”. Il secondo è stato un amico americano, un banchiere di nome Chris Gardner, che mi ha contattato e mi ha fatto delle proposte. Io rimanevo convinto del fatto che non si dovessero inseguire sogni di gloria tra i professionisti. Milano ha già Inter e Milan, tutto il resto è velleitario. Non mi interessava fare una mossa che portasse il Brera in A, l’ha fatto Berlusconi – che non è esattamente un uomo del futuro – con il Monza e ha dovuto spendere oltre 70 milioni.
La sostenibilità economica rimane un mantra per qualsiasi imprenditore, ovviamente. L’epoca del mecenatismo morattiano è finita da un pezzo.
Appunto, per questo abbiamo deciso di provare a entrare nel calcio professionistico attraverso paesi “laterali”, in cui l’appartenenza alla Uefa permette l’accesso alle competizioni europee, con premi piuttosto rilevanti, ma che hanno costi di accesso e di gestione molto bassi. L’accordo che abbiamo fatto con Goran Pandev in Macedonia ci permette di creare una società in quel Paese sapendo che non è necessario spendere decine di milioni per essere competitivi.
Quindi volete snaturarvi e diventare una “potenza economica”?
Per niente. I soldi che dovessero arrivare dalle partecipazioni alle competizioni europee ci permetteranno di ampliare il nostro bacino d’utenza in Africa e Sud America. Creeremo una rete in modo da rafforzare i club di quei Paesi con progetti in loco, che permettano di incidere positivamente sulla vita delle persone.
Insomma, esportare il modello Brera Calcio…
Esattamente. All’estero vogliamo modellare calcio professionistico ma anche impiegare il calcio per altri interventi in cui siamo particolarmente efficaci.
Che cosa c’entra allora il Nasdaq?
Perché è la maniera giusta per finanziare questo progetto. Non volevamo che entrassero fondi interessati a massimizzare l’investimento. Per questo è stata costituita una holding cui verranno conferite le azioni del Brera Calcio ma non solo: anche la squadra di Goran Pandev, che verrà poi ribrandizzata. Abbiamo già costituito il Brera Mozambico, che milita nella Serie B di quel Paese africano. Vorrei arrivare a 10 club entro la fine dell’anno prossimo. Un intervento che si può fare nei campionati, mi passi il termine, minori, in cui il cambio nome è meno impattante sui tifosi. Il calcio è ancora ammantato di una sorta di timore religioso che non riguarda invece gli altri sport.
In conclusione: state puntando a diventare il City d’Italia?
Ovviamente non disponiamo delle risorse dello sceicco Mansour, ma l’idea è quella di portare la nostra cultura e i nostri valori anche in altri Paesi del mondo. Quindi sì, vogliamo diventare il City del calcio “diverso” di cui siamo da sempre ambasciatori.