Nomine, tra Lega e Meloni è calato il gelo. Ora si rischia lo scontro: inside
Matteo Salvini non cede di un centimetro: vuole dire la sua sugli amministratori delegati delle partecipate, ma la premier ha un'altra idea
Nomine, il governo rischia il primo vero stop
Via Merulana 219 – dove Carlo Emilio Gadda ambientò il suo “pasticciaccio” – dista poco più di due chilometri da Palazzo Chigi. Eppure la tensione monta, i sorrisi si fanno sempre più tesi, i toni si alzano, le parole si induriscono: il governo ha finito la sua luna di miele (per qualcuno non è mai iniziata, ma questa è un’altra storia) e ora sta vivendo il suo personalissimo “pasticciaccio” sulla questione nomine. Con una serie di colpi e contraccolpi che non potranno non lasciare segni pesanti anche nel futuro della coalizione. E c’è chi inizia a sussurrare che le elezioni del 2024, quelle in cui Giorgia Meloni inevitabilmente diventerà “pesante” anche in Europa, sanciranno la fine dell’attuale maggioranza e la formazione di un nuovo governo con una spalla più centrista che risponde al nome di Matteo Renzi.
Ma torniamo alle nomine. Giorgia Meloni si è chiusa in un riserbo molto stretto, si è affidata a tre agenzie di selezione del personale manageriale come Spencer Stuart, Key2People ed Eric Salmon e ha rilasciato poche dichiarazioni di prammatica. La prima è che si guarderà molto al merito e ai risultati. Sì, ma quali sono i risultati? La capitalizzazione di Borsa? In questo caso l’unico che dovrebbe salutare sarebbe Claudio Descalzi da Eni. Proprio il manager che invece tutti o quasi danno per sicuro alla guida del cane a sei zampe, superando come longevità anche Enrico Mattei.
I risultati finanziari? Le aziende impegnate nel settore energetico hanno vissuto un tale incremento di fatturato negli ultimi due esercizi che i loro manager dovrebbero essere inchiavardati alla sedia. Eppure due sono i dirigenti che gli ultimi sussurri danno ormai in uscita: Francesco Starace da Enel e Alessandro Profumo da Leonardo. I motivi sono in realtà molto più politici che manageriali. Il primo dovrebbe pagare una certa indipendenza dall’esecutivo (soprattutto quello di Mario Draghi) sia nella gestione della partita in Russia sia per quanto concerne la vicenda Open Fiber e la cessione del 50% di proprietà di Enel a Cdp e Macquarie. Ma anche qui c’è un rovescio della medaglia: dalla vendita della partecipazione in OF Enel (e quindi lo Stato) ha ottenuto una buona plusvalenza.
Profumo dovrebbe pagare la sua vicinanza storica alla sinistra. Basta questo per rimuovere un manager che ha comunque garantito una certa credibilità a livello internazionale all’azienda? Evidentemente sì, tanto che dal momento in cui Giorgia Meloni si è issata sullo scranno di Palazzo Chigi nessuno ha scommesso un centesimo bucato sulla permanenza di Profumo in Piazza Monte Grappa.
Nomine, monta il caso Donnarumma
Ma è sui possibili sostituti che si sta consumando una battaglia all’interno della maggioranza. Da una parte la Meloni vorrebbe Stefano Donnarumma, attuale amministratore delegato di Terna, alla guida di Enel. Solo che qui la questione si complica. Donnarumma sarebbe reduce – come riportano i rumor dalla City – da un road show a Londra in cui avrebbe destato qualche perplessità. Sia perché è irrituale che si faccia un tour prima della presentazione del bilancio e in secondo luogo perché parrebbe che il manager abbia detto la sua sulle varie partecipate, parlando già da nuovo capo della principale azienda industriale italiana.
La Lega su Enel non molla di un centimetro. Non è disposta a dare il via libera su Donnarumma (e su Descalzi in Eni) senza avere una contropartita di peso. Per questo motivo, a quanto risulta ad Affaritaliani.it, nella giornata di ieri sono circolate alcune “veline” in cui si sosteneva che l’attuale ad di Terna sarebbe incompatibile con Enel. Voci prontamente smentite che però fanno capire come la tensione si sia alzata.
Il Carroccio avrebbe chiesto di avere un presidente di peso in Enel. Si fa il nome di Paolo Scaroni, uno che conosce il comparto come pochi altri in Italia. Ma sarebbe, appunto, una figura ingombrante, forse troppo. E qualcuno ha ricordato alla Lega l’esperienza complicata di Finmeccanica con due amministratori delegati che non si amavano troppo e che avevano diviso gli uffici in due, con badge e porte separate.
Su Leonardo si è detto e scritto di tutto. Roberto Cingolani, fresco di incarico alla Nato, lo allontana da Piazza Monte Grappa. Restano in lizza Lorenzo Mariani, al timone della filiale italiana del “gioiellino” Mbda, azienda della galassia dell’ex-Finmeccanica specializzata in missili e tecnologie per la difesa, per cui si sarebbe speso Matteo Salvini. Poi c’è Gian Piero Cutillo, vice-direttore generale di Leonardo a capo della divisione elicotteri. Infine ci sarebbe anche il direttore generale dell’ex-Finmeccanica, Lucio Valerio Cioffi, un outsider che potrebbe garantire la continuità con il progetto di Profumo – che gode di grande reputazione all’estero.
Nomine, le quote rosa (che non piacciono a nessuno): i nomi Morselli e Di Foggia
La seconda affermazione della Meloni ha lasciato un po’ più spiazzati. Ha chiesto di incrementare la presenza delle donne. Detta così, non vuol dire nulla. La presenza femminile nelle stanze dei bottoni è talmente bassa da aver fatto dell’Italia la cenerentola d’Europa. Ma si può tentare di ribaltare la cosa con un colpo di spugna? Al momento siede alla presidenza di Eni Lucia Calvosa, sui cui rimborsi si è detto molto e che pare in uscita dal cane a sei zampe. Ma nei ruoli decisionali mai c’è stata una donna. E i nomi che circolano – da Lucia Morselli, ceo di Arcelor Mittal Italia fino a Giuseppina Di Foggia, capo di Nokia – sembrano non scaldare i cuori.
Una manager di primaria importanza ha commentato sarcastica ad Affari: “Le donne vengono ormai trattate come i panda. Se la Meloni vuole fare la rivoluzione, porti avanti la cultura del merito e crei una classe dirigente nuova, composta da donne capaci e brillanti che possano aspirare legittimamente alle poltrone più importanti non per il loro sesso ma perché davvero meritorie”.
Poi c’è Poste Italiane. Matteo Del Fante ha svolto il suo compito in maniera ineccepibile e dovrebbe restare. Ma c’è un punto interrogativo: Cassa Depositi e Prestiti. L’anno prossimo ci sarà il rinnovo dei vertici e il manager fiorentino è stato direttore generale di Via Goito. Tornare da numero uno potrebbe essere assai interessante, ma c’è da battere la concorrenza di Antonino Turicchi che, una volta completata la trattativa tra Ita e Lufthansa, sarà libero di coronare i suoi sogni di gloria, dopo essere stato tenuto in caldo per il posto di direttore generale del Mef.
La Lega, così come Forza Italia, mastica amaro. La Meloni sta dilatando i tempi all’infinito perché sogna il blitz notturno con la presentazione delle liste a poche ore dalla scadenza dei termini per lasciare gli alleati con il cerino in mano. Ma Salvini non ha alcuna intenzione di cedere. Tant’è che anche sul ruolo di commissario straordinario alla siccità il leader del Carroccio nicchia. Non vorrebbe che diventasse materia di scambio.
La Meloni, dal canto suo, ha un consenso stabile intorno al 30% dei voti, sa che ha dalla sua anche l’establishment continentale che – dopo un’iniziale diffidenza – ha capito che non è lei la parte estrema e sovranista da temere. Il doppio schiaffo della Lega durante le votazioni sulle armi in Ucraina; le parole del capogruppo al Senato Romeo raccolte da Affaritaliani.it; la consapevolezza che al momento quell’8% di voti della Lega è un “nocciolino duro” senza il quale è difficile governare rende lo scontro sempre più strisciante e continuo. Ma a due settimane dalla consegna delle liste sembra davvero che la pace sia molto lontana. Ora la premier è a Bruxelles per il vertice europeo, ma i telefoni ribollono e lei, tra i denti, ripete una frase: "Ho preso il triplo dei voti della Lega, io non mollo".