Economia post Ucraina, Cina e fondi green: Europa a rischio sopravvivenza
Dalle conseguenze economiche della guerra in Ucraina alla competitività cinese fino al sostegno Usa alla transizione green: le minacce esistenziali per l'Ue
Ecco le sfide su cui l'Ue rischia di disintegrarsi
Due recenti articoli, di Mario Monti sul Corriere del 21 Gennaio, e di Salvatore Bragantini su Domani del 30 Gennaio, ci faranno da guida in questo tentativo di breve ricognizione dello stato e le prospettive della Ue. Monti parte dalle sfide immediate che l’Europa si trova a fronteggiare, che sarebbero le conseguenze economiche della guerra in Ucraina, la competitività cinese e “i massicci sostegni con i quali il governo americano ha deciso di accelerare la transizione verde”, una frase con cui opportunamente Monti decripta la sigla statunitense un po’ ipocrita “ira”, inflation reducing act.
Queste tre sfide costituiscono una minaccia esistenziale alla Ue, perché il tentativo di affrontarle potrebbe acuire i problemi interni della Ue al punto di provocarne la disgregazione. Questo è anche il tema dell’articolo di Bragantini, che offre un interessante quadro sintetico dello stato della Ue e delle tendenze disgregatrici in atto. La guerra in Ucraina ha evidenziato una delle più evidenti anomalie della costruzione europea: non ha una politica estera comune e non ha una difesa comune. E’ potuta fiorire, dice Bragantini, delegando la difesa alla Nato, ma questa delega ha inevitabilmente comportato una più ampia delega politica. L’Ue non ha una sua politica sulla Russia e sulla guerra in Ucraina.
Si ricordi che la tensione tra la Russia e l’Ucraina si acuì quando gli ucraini manifestarono con forza il desiderio di accettare l’accordo commerciale con la Ue piuttosto che aderire all’unione doganale con la Russia, la Bieolorussia, il Kazakistan loro offertagli da Putin, nel tentativo neo-zarista, ma non economicamente insensato, di ricostituire un antico grande spazio economico. Per la Ue, vi sarebbe ampio campo per degli accordi commerciali e doganali che includessero anche questi paesi ex sovietici, compresa la Russia. Un tentativo in questa direzione fu fatto dalla Ue con la “politica del vicinato” del 2004, ma respinto sdegnosamente dalla Russia. Bisogna negoziare instancabilmente tenendo conto delle suscettibilità di un paese ex imperiale! Invece oggi in Europa vi è una tendenza a rifugiarsi ulteriormente nella Nato e negli Usa per timore dell’aggressività della Russia.
Da un lato è l’indilazionabile momento per l’Europa di darsi un chiaro assetto federale, dall’altro, avvisa Bragantini, le due principali forze politiche che hanno sostenuto la costruzione europea, i Popolari e i Socialisti, sembrano sul punto di separarsi. I Popolari tedeschi stanno progettando un’alleanza con i Conservatori, tra cui il partito della Meloni. Dell’Ue resterebbe probabilmente un guscio vuoto. D’altra parte, alla Ue resta il problema della ripresa del suo funzionamento normale dopo l’avventura della pandemia, in cui l’Ue ha non solo tollerato ma promosso alcuni scostamenti dalle regole solite: quello macroscopico sorprendente e inaspettato della Bce che ha assorbito gigantesche quantità di titoli pubblici, e quello dei sussidi a non solo famiglie ma anche imprese.
Credo che bisognerà studiare accuratamente questo eccezionale esperimento, propiziato anche da una famosa lettera di Mario Draghi al Times, che ha avuto successo. Riprenderemo con discussioni interminabili su una nuova versione del famoso, e in Italia, odiato, Patto di Stabilità e Crescita? Ridaremo vigore al divieto per la Bce di monetizzare i titoli di debito pubblico? O si riconoscerà che l’Europa ha bisogno di un fisco comune, ben al di là della frazione di Iva che afferisce al bilancio comunitario? Questa è un’alternativa da molti in Europa temuta, a causa soprattutto della irresponsabilità italiana.
Ma da un lato, fino a quando saremmo nella Ue, bisognerà accettare i nostri vizi, come del resto è stato fatto sinora. Io temo che i tentativi di indurre l’Italia a riformarsi agitando l’esca del Pnrr siano falliti, anche per la scarsa fermezza della burocrazia europea. Dall’altro, è arrivato il momento di guardare anche alla terza sfida dell’elenco di Monti, l’ineffabile “ira”. Di cosa si tratta? Abbiamo già visto la descrizione di Monti. Quella di Bragantini è più maliziosa: “Gli Usa, ex bastoni del libero mercato, virano sul protezionismo spendono miliardi a centinaia per essere autonomi dalla Cina e attrarre imprese estere,” dalla quale il fine principale del programma, la conversione all’uso pulito dell’energia, viene addirittura omesso. Anche la Ue ha un suo ambizioso programma verde, di cui la von der Leyen ha ripetutamente parlato negli ultimi giorni.
Ma non è una sua invenzione recente, è uno dei caposaldi del programma su cui è stata eletta: net zero industry, non dunque emissioni gassose nulle, ma saldo nullo tra immissioni e de-missioni. L’obiettivo è lo stesso degli statunitensi, ed anche il termine entro cui raggiungerlo, il 2050. Se fosse economicamente e politicamente possibile raggiungerlo sfruttando il sistema dei prezzi, non ci sarebbe bisogno di ricorrere ad un programma amministrativamente molto elaborato di sussidi pubblici.
Le imprese che non ricorressero a tecniche di energia pulita sarebbero messo fuori mercato, e quelle che lo facessero sarebbero incoraggiate ad entrarvi. Ma abbiamo tutti assistito alle proteste indignate e gli alti lamenti quando i prezzi di esattamente quelle sostanze gassose sono saliti. Proteste indignate che neppure gli Stati Uniti hanno osato sfidare con l’introduzione di imposte pigouviane sull’impiego di tecniche e materie inquinanti, che la teoria economica suggerisce come di gran lunga più efficienti dei sussidi e che approssimerebbero i prezzi “giusti”.
Dunque, programmi di sussidi pubblici negli USA e in Europa. Gli attacchi della von der Leyen agli Usa sono o puro teatro o incomprensibili. Caso mai vi è un’esigenza di coordinamento dei due programmi, che a quanto so sta già venendo affrontata. Vi è poi il problema di reggere la concorrenza con quei paesi –e sono moltissimi- che non adotteranno alcuna misura net zero. Qui alcuni hanno già gridato al protezionismo, compreso Bragantini come abbiamo visto. Anche qui, vi sono a mio avviso ampi spazi per negoziati. Ma questo tipo di protezionismo mirato è inevitabile se, paradossalmente, si vuole mantenere la concorrenza.
”L’idea più controversa è quella di ammorbidire sostanzialmente la disciplina della Commissione sugli aiuti di Stato, sospesa temporaneamente con la pandemia ma che dovrà essere reintrodotta. L’ammorbidimento è chiesto con insistenza dalla Francia, alla quale si è associata la Germania”, scrive Monti. Ed egli suggerisce alla Meloni di prendere la leadership dei paesi della Ue che vi si oppongono. Ma non mi è chiaro a cosa questa opposizione porterebbe. Vi sono mi pare tre problemi. Uno, studiare un sistema di sussidi all’introduzione di tecnologie pulite che mantenga in concorrenza i richiedenti i sussidi.
Questo può essere tecnicamente e amministrativamente difficile, ma non impossibile. Bisogna rendersi conto che programmi di questa ambizione possono essere visti come esperimenti di pianificazione socialista. Anche nelle teorie economiche del socialismo era prevista l’azione del mercato. Due, identificare la fonte dei sussidi. Se ciascun paese dovesse erogare fondi propri, si creerebbero, lamentano Monti, Bragantini, e molti, molti altri, delle disparità nella rapidità della transizione verde tra i paesi meno e quelli più indebitati. La soluzione proposta sarebbe la costituzione di un fondo comune, dal quale distribuire in base a regole comuni: una condizione necessaria di concorrenzialità. Questa è l’indicazione della commissaria alla concorrenza e agli aiuti di Stato, Margrethe Verstager, una valente economista più volte frustrata. Ma il fondo sarebbe alimentato dai singoli stati, con i loro introiti fiscali. Perché allora, tre, non approfittare dell’occasione per introdurre una imposta europea?