La cucina italiana in Oriente non attira più e gli chef scappano dalla Cina
Sono molteplici i motivi che portano i cuochi italiani fuori dalla Cina: dai costi elevati delle materie prime agli stipendi non più appetibili. L'analisi
La cucina italiana in Oriente non attira più e gli chef scappano dalla Cina
La pandemia ha messo a dura prova il settore della ristorazione, soprattutto in Cina, là dove il Coronavirus ha avuto origine per poi propagarsi in tutto il mondo. E gli effetti si vedono ancora oggi, a distanza di ormai tre anni. In particolare, in questo primo semestre del 2023 la forbice tra ristorazione alta e fast food o luoghi di consumo popolare si è ampliata penalizzando la fascia media. Molti ristoranti o catene di ristorazione hanno chiuso e ancora oggi, a parte qualche eccezione, si può notare come non vi sia una frequenza costante di clientela e una crescita progressiva, a vantaggio dell’utilizzo del delivery che ha assunto un certo carattere di prevalenza.
Non è indenne da questa rappresentazione la ristorazione italiana in Cina, risultato non solo di una scrematura derivata dai tre anni di pandemia, ma anche di costi di gestione in aumento da un lato e della volubilità dei consumatori (spesso giovani cinesi) dall’altro. Le eccezioni naturalamente ci sono, ma in generale la ristorazione italiana sul suolo cinese non se la sta vivendo proprio bene. Tra i motivi c'è anche la carenza di cuochi italiani.
Secondo quanto riporta il Gambero Rosso, nel 2019 erano presenti solo ad Hong Kong 800.000 espatriati pari a circa il 10% sul totale della popolazione, mentre a fine 2022 ne erano presenti il 4,6%. È evidente che questo esodo abbia condizionato anche il settore alimentare e della ristorazione. Il problema è che la Cina non rappresenta più una destinazione attrattiva. Quali sono le ragioni di questa disaffezione? In primo luogo il timore che quanto accaduto, soprattutto nel 2022, possa ripetersi; a parte il famoso lockdown, vi sono stati casi, non rari, dove per un cliente che entrava a consumare, il locale poteva essere chiuso per alcuni giorni se lo stesso cliente fosse stato riconosciuto positivo.
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La seconda ragione è la difficoltà di reperimento dei prodotti italiani in quanto, da un lato, alcuni importatori o distributori hanno cessato l’attività; dall’altro, conseguenza diretta, i prezzi di listino sono aumentati e la ristorazione media non può sostenere questi costi. Nell’ultimo periodo se si vuole utilizzare alcuni prodotti italiani bisogna essere preparati a spendere 100 euro al chilo per il guanciale, altrettanto per un cotechino e 225 euro al chilo per un culatello di Zibello, per non parlare delle latte di olio di oliva da 5 litri a 46 euro. Se poi si aggiunge la difficoltà di reperire prodotti ittici freschi dal Giappone (la Cina ha recentemente sospeso l’import di cibo dal Giappone), la scelta si riduce a produzioni locali o congelate, o ancor peggio ai prodotti italian sounding.
Inoltre c'è una crescente difficoltà nella gestione di staff cinesi che non sempre seguono pedissequamente le istruzioni dello chef nella preparazione dei piatti in cucina, forse per un rinato sentimento nazionalista, e infine la retribuzione che oggi è inferiore rispetto ad altre realtà geografiche. Negli ultimi nove mesi le offerte del mercato del lavoro rivolte a chef italiani si sono orientate per il 60-70% su Singapore, sugli Emirati Arabi Uniti (in particolare Dubai) e qualche richiesta arriva pure dall'Egitto, dal Vietnam e dalle Mauritius. Le offerte riguardano non solo executive chef ma anche profili intermedi. Tutto questo potrebbe significare un passo indietro nella promozione della nostra tradizione gastronomica in Cina.