Andrea Canobbio ci racconta “La traversata notturna”
Il romanzo nella cinquina del Premio Strega 2023 parla di depressione, relazioni familiari, amore e molto altro
Andrea Canobbio, scrittore già noto per aver vinto importanti premi letterari e pubblicati diversi romanzi, è rientrato nella cinquina dello Strega 2023 grazie al suo libro La traversata notturna. Un volume di oltre 500 pagine denso di argomenti, elementi autobiografici, storia, analisi, riflessioni e sentimenti.
Ci ha impiegato davvero molto tempo Andrea Canobbio per scrivere La traversata notturna: un romanzo che sin dalle intenzioni iniziali avrebbe dovuto raccontare la storia dei suoi genitori, senza mai illudersi che sarebbe stato facile farlo. Eppure, eccolo arrivare fino in fondo e consegnare alle stampe nel settembre 2022 per La Nave di Teseo l’opera che forse rappresenta il suo lavoro più completo, non soltanto come scrittore, ma anche come analisi di sé stesso e delle proprie relazioni interpersonali. Il tema di fondo – seppur con molte divagazioni e parentesi aperte – è infatti la storia della sua famiglia, con un’attenzione particolare alla malattia del padre: la depressione. Un male che lui stesso ammette di non essere mai riuscito a comprendere del tutto, crescendo con un sordo rancore nei confronti del genitore e delle sue inevitabili mancanze: d’altra parte, si era tra gli anni Sessanta e Settanta, ben lontani dalle conoscenze che i medici e gli psicologi possiedono oggi in materia, ancora più distanti da una qualche forma di empatia e comprensione da parte delle persone comuni. Si diceva ancora “problemi di nervi” o “esaurimento nervoso”, il che voleva dire tutto e niente: un qualcosa che da un lato sembrava avere cause biologiche, dunque risolvibili con la farmacologia, ma dall’altra celava anche il grande non detto della fragilità, dell’incompetenza, della colpa.
Forse per la prima volta nella sua vita di scrittore, e soprattutto di figlio, Andrea Canobbio riflette sul rapporto instaurato nel corso degli anni non soltanto con il padre, ma anche con la madre. Sia chiaro, si parla sempre e comunque di fiction, non di autobiografia: il fatto che egli abbia attinto dal suo personale vissuto non significa che non si sia preso quelle piccole grandi libertà concesse a un narratore. Tuttavia, il punto non è capire se questa sia la sua storia o la storia di qualunque figlio che non sia mai riuscito a perdonare il padre, che non si sia neppure posto davvero il problema di individuare le cause del suo malessere, che realizzi solo quando ormai è troppo tardi di non aver detto o chiesto abbastanza e persino che riconosca di aver idealizzato la figura materna in contrapposizione a quella paterna, per poi scoprire che anche lei in fondo aveva le sue colpe. L’intera lettura lo segue, quindi, in un lungo percorso di presa di consapevolezza, grazie al ritrovamento delle lettere scambiate tra i suoi genitori prima che lui nascesse, allo studio delle agende, alle informazioni ricavate da familiari, parenti e amici, alla ricerca storica. Entrando a poco a poco nelle loro vite, non più come un figlio in cerca di riconoscimento ma come professionista che sta svolgendo il proprio mestiere, egli scopre un uomo che non ha mai conosciuto (il padre), una donna alquanto diversa da quella che ricordava (la madre) e persino un sé stesso ormai dimenticato. È la storia dell’umanità intera e di come i ricordi modifichino la realtà, tanto che alla fine non si riesce più a distinguere il vero dal falso; perché in fin dei conti non esiste un vero e neppure un falso, tutto non è altro che interpretazione. Ecco allora che ogni giudizio dato, ogni forma di disinteressamento, ogni sicurezza acquisita, se rimessi in discussione a posteriori potrebbero rivelarsi l’opposto di ciò che sembravano.
La traversata notturna non è però soltanto un romanzo familiare. Il lavoro di ingegnere del padre dà a Canobbio l’occasione per ripercorrere la storia di Torino dal primo Novecento ai giorni nostri, partendo proprio dalle sue vie, dai palazzi, dagli edifici con un significato simbolico e architettonico, dalla conformazione delle strade e dei quartieri. È un libro pieno di sopralluoghi, questo, apparentemente effettuati per condurre ricerche sui suoi genitori, in particolare sulla professione del padre; in realtà, i sopralluoghi sono un pretesto per dedicare ampi spazi alla città, alla sua evoluzione, alle sue caratteristiche intrinseche, al suo inseguire i cambiamenti arrancando dietro al progresso. Ne deriva che Torino è essa stessa protagonista del libro, una dei molti personaggi chiamati a popolare questo affresco "umano" e a compiere ciascuno la propria traversata notturna. Torino e i suoi dintorni, sarebbe forse più corretto dire, perché le peregrinazioni di Canobbio travalicano i confini della città e restituiscono un ruolo centrale anche alla campagna, ai paesi, ai borghi, ai luoghi solo all’apparenza meno significativi, ognuno dei quali porta con sé una storia da tramandare.
Non basta ancora; il libro che l’autore confeziona gioca infatti apertamente con il metatesto: dal racconto di come ha preso vita il racconto, sino alle molte porte aperte su mondi altri, come quello dei Dogon, una popolazione primitiva il cui studio accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina attraverso le voci di scrittori ed etnologi illustri. Ma ci sono anche i temi della guerra, della disillusione, del Fascismo, dell’ideologia, dello sviluppo industriale e del conseguente cambiamento tanto delle abitudini quanto del gusto, dell’estetica, della malattia mentale nel secolo scorso, della contrapposizione tra città e campagna, dello sradicamento dalla terra d’origine. Digressioni che diventano vere e proprie storie nelle storie: il lettore è chiamato a viverle mantenendo la propria attenzione su più fronti e a diversi livelli, così da rendere la struttura del romanzo un elevato “esperimento” letterario, a sua volta ispirato a testi già scritti. C’è poi la tematica del perdono: nei confronti del padre, prima di tutto, per essersi ammalato e non essere stato in grado di dargli ciò che, nella sua visione di bambino prima e adolescente poi, gli spettava di diritto; della madre, per quei silenzi e quel totale rifiuto della sofferenza scambiati a lungo per sana protezione, quando forse la questione non è mai stata così semplice; per sé stesso, con il pesante bagaglio di domande non fatte, silenzi non interrotti, abbracci non dati, supporto non concesso, ascolto non prestato, giudizio talvolta affrettato. Elementi che hanno sì lasciato gradualmente il posto a una consapevolezza ben più profonda e completa, ma quando ormai i genitori non erano più in vita e la nostalgia del non detto non si sarebbe cancellata neppure con la stesura di un libro di 500 pagine.
Immergendosi tra le strade di Torino e le mulattiere di campagna insieme ad Andrea Canobbio, ci si scoprirà ad apprezzare paragrafi insoliti, scene inedite di vita privata, o al contrario situazioni che sentiamo di aver vissuto prima o tardi nella nostra vita. Volendo però scegliere due momenti che fisserei nella memoria, a mio parere tra i passaggi più belli de La traversata notturna, estrapolerei dal testo innanzitutto la mattina in cui il padre dell’autore gli si avvicinò mentre lui ancora dormiva sul divano dopo una notte brava e gli si mise davanti in silenzio; al suo risveglio, notò delle lacrime sul volto del genitore: che cosa si celava dietro quel pianto? Sofferenza? Amore? Senso di colpa? Rassegnazione? Impotenza? La risposta non la ebbe mai, perché in quel frangente, ancora giovane e concentrato sulle vacanze imminenti, la sua mente era altrove; così, non furono spese parole da parte di nessuno dei due. Del perché ciò avvenne, Canobbio ne parla in un altro intenso estratto, quando si interroga in merito al suo ruolo di padre e non più di figlio, in un certo qual modo spaventato, come tutti coloro che hanno avuto in famiglia modelli non proprio esemplari: «Avrei per forza deluso anch’io i miei figli, ridotto come il leone spelacchiato che ha perso il comando del branco e muore di fame? Ero destinato a diventare vecchio, calvo e rincoglionito? Le mie scelte sbagliate si sarebbero rivoltate contro di me? Sì, così era scritto nel libro di una vita – il libro squadernato nelle pubblicità delle pompe funebri. E questo rito di passaggio mi faceva rivivere il momento in cui da ragazzo, contro i miei istinti e i miei desideri, avevo pensato che mio padre non era ammirabile, nemmeno con la miglior volontà; a un certo punto – ricordo bene la sensazione – avevo deciso che mio padre era una battaglia persa».
Poi c’è la lunga conclusione del libro, quella in cui tutto si capovolge, il cielo si apre, le nubi sembrano sparire, per lasciare spazio finalmente all’uomo innamorato, allegro, scherzoso, pieno di vita, di sogni, di speranze. Era questo l’ingegner Canobbio prima di diventare un depresso, uno sconfitto con cui né la moglie né i figli desideravano passare il proprio tempo. C’è stato un luogo, un’età, un periodo storico e uno stato d’animo dove la malattia non esisteva ancora, ed è soltanto nelle pagine finali del romanzo che lo scopriamo, restando sorpresi come probabilmente lo fu suo figlio quando lesse per la prima volta quelle lettere appassionate, intrise di sentimento. La commozione è dietro l’angolo, perché diventa chiaro ciò che quasi mai siamo disposti ad ammettere: nessuno di noi è al sicuro, per quanto certo della propria serenità interiore possa essere. Esistere significa percorrere una strada sconosciuta, inoltrarsi verso l’ignoto senza sapere se fra dieci anni saremo ancora capaci di innamorarci o ci sentiremo travolti dalla nostalgia, se guardando indietro saremo felici per le scelte compiute o intrisi di rimpianto, se la mattina guardandoci allo specchio ci sfuggirà un sorriso o una lacrima. Questo amore puro, sincero tra i suoi genitori, “tradito” da ambo le parti – che cosa dovette sentire e pensare la madre dell’autore durante tutti quegli anni in cui il marito entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche? – ci colpisce al cuore perché ci consegna l’immagine della giovinezza, della spensieratezza, della leggerezza: quella che ognuno di noi almeno una volta ha vissuto e che spesso, con l’avanzare dell’età, gradualmente svanisce. Eppure era vera, vivida e concreta: le lettere, insieme a tante altre piccole tracce che ci lasciamo dietro, sono lì a ricordarcelo, o magari a mostrarlo a chi non ha fatto in tempo a conoscere quella parte di noi.
«E guardarono ancora gli sciami di stelle e la luna ormai alta all’orizzonte, in mezz’ora si era infiammata e incenerita – era ora di scendere! (…) Invece lei lo abbracciò stringendolo ancora di più (…) e restarono sulla terrazza ad ammirare le luci della riviera brillare nel buio a levante e a ponente, e lei chiese se Torino possedeva un panorama così bello. Certo – rispose lui -, salendo in alto, sul punto più alto della collina, guardando verso le Alpi marittime e immaginandole come nuvole ammassate sull’orizzonte, penserai di essere al mare. Allora ci vuole una casa da quel versante della collina – disse lei –, l’avrebbero cercata, e nei giorni d’aria limpida avrebbero diretto lo sguardo verso il paese d’origine, e alle spalle delle colline di argilla bianca avrebbero immaginato le spiagge di sassi battute dalle onde e dal vento».