Dozzina Premio Strega: le interviste agli autori e alla Presidente

Uno speciale interamente dedicato alla dozzina del Premio Strega 2023: ecco tutto quello che c’è da sapere

di Chiara Giacobelli
Premio Strega 2023: alcuni dei libri in gara
Libri & Editori

Affaritaliani.it ha intervistato gli autori in gara e la Presidente del Comitato Direttivo Melania G. Mazzucco. Ecco un approfondimento esclusivo sui titoli della dozzina e sul dietro le quinte del più importante premio letterario italiano.  

I libri selezionati per far parte della dozzina del Premio Strega 2023 sono riposti in una pila ordinata sulla mia scrivania: attendono di essere fotografati, riletti, ulteriormente studiati per successive interviste di approfondimento. Intanto, però, hanno già avuto modo di farsi scoprire grazie a questo primo speciale che Affaritaliani.it dedica allo Strega: un lavoro che ci ha portati a contattare gli autori in gara, porre loro qualche domanda, sfogliare i volumi cartacei e intervistare Melania G. Mazzucco, già vincitrice del più importante premio letterario italiano nel 2003 con Vita e oggi Presidente del Comitato Direttivo dello Strega. L’abbiamo incontrata a Roma e le abbiamo chiesto un parere sulla dozzina di quest’anno: che cosa la connota rispetto alle precedenti edizioni e come si collocano i titoli all’interno dei vari generi.


 

“Ciò che ci ha colpiti sin da subito nella totalità delle opere proposte è stata la forte presenza di un trauma: in quasi tutti i libri si parla di dolore, morte, suicidio, perdita. È come se il Paese intero si stesse interrogando sull’elaborazione di un lutto collettivo attraverso la scrittura. Lo abbiamo percepito come un messaggio positivo che denota una grande fiducia nell’atto dello scrivere, inteso come cura, terapia e rinascita. Questo elemento è evidente in maniera significativa anche nelle storie selezionate per la dozzina, con l’apparire della malattia, dell’abbandono, della sofferenza. Di conseguenza, molti libri non sono romanzi di fantasia, ma memoriali, con una riscrittura della propria storia che attinge a piene mani dalla realtà, comunicando in prima persona”.

Non solo memoir però, perché – come ci spiega Melania G. Mazzucco – qualcuno si è cimentato in generi diversi, talvolta piuttosto originali. “Sono esperimenti degni di nota due libri che riscrivono testi altrui dimostrando la vitalità e l’evoluzione della letteratura, che in questo caso prende spunto dal passato per creare qualcosa di nuovo. Una delle due storie si confronta con Perec, l’altra con Parise e sono entrambe molto interessanti; allo stesso modo vanno segnalate due biografie, altro genere che negli ultimi anni è andato crescendo e imponendosi nel mercato editoriale”.

Dunque questa dozzina è “una grande riflessione su chi siamo adesso e su ciò che ci sta succedendo, a denotare un Paese ferito e ammalato, che tuttavia ha ancora fiducia nella parola come possibilità di comprensione del dolore e quindi del suo superamento. A fronte delle tantissime forme di comunicazione che oggi esistono, ben meno impegnative di un libro, il concorso di quest’anno ci dimostra che la scrittura e la lettura non sono affatto attività in via di estinzione, tutto il contrario”.

I libri in gara sono i seguenti, in ordine alfabetico:

1. Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza), presentato da Giuseppe Antonelli.

2. Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata (Einaudi), presentato da Franco Buffoni.

3. Andrea Canobbio, La traversata notturna (La Nave di Teseo), presentato da Elisabetta Rasy.

4. Ada D’Adamo, Come d’aria (Elliot), presentato da Elena Stancanelli.

5. Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico (Laurana Editore), presentato da Alessandro Barbero.

6. Vincenzo Latronico, Le perfezioni (Bompiani), presentato da Simonetta Sciandivasci.

7. Romana Petri, Rubare la notte (Mondadori), presentato da Teresa Ciabatti.

8. Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli), presentato da Nicola Lagioia.

9. Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio (Bompiani), presentato da Jhumpa Lahiri.

10. Andrea Tarabbia, Il continente bianco (Bollati Boringhieri), presentato da Daria Bignardi.

11. Maddalena Vaglio Tanet, Tornare dal bosco (Marsilio), presentato da Lia Levi.

12. Carmen Verde, Una minima infelicità (Neri Pozza), presentato da Leonardo Colombati.

Nelle prossime pagine li approfondiremo uno ad uno per farvi scoprire qualcosa in più sulle storie e sugli autori, a cui Affaritaliani.it ha rivolto per l’occasione alcune domande.


 

1)  La Sibilla. Vita di Joyce Lussu di Silvia Ballestra (Laterza)

Iniziamo proprio da una delle due biografie citate da Melania G. Mazzucco. Silvia Ballestra – autrice già nota per aver vinto svariati premi e pubblicato molti libri di vario genere, alcuni dei quali sono stati tradotti all’estero e trasformati in adattamenti televisivi – arriva allo Strega con uno stile pienamente maturo e una storia di notevole interesse. A renderla tale è in primo luogo la protagonista, Joyce Lussu, a cui la Ballestra aveva già dedicato in passato numerosi studi e un saggio; d’altra parte la storia, le figure femminili e i personaggi che hanno lasciato un segno nel nostro Paese sono sempre stati al centro dell’attenzione e dei lavori dell’autrice marchigiana.

Per chi non la conoscesse, Joyce Lussu – vissuta dal 1912 al 1988 – fu una straordinaria eroina del Novecento: scrittrice, traduttrice, intellettuale e poetessa, si impegnò sempre molto da un punto di vista politico e sociale, tanto da ricevere la Medaglia d’Argento al valor militare. Fu partigiana, capitano delle brigate Giustizia e Libertà, antifascista sempre in prima linea per garantire la libertà di espressione. Il ritratto che Silvia Ballestra ne traccia in questo libro di grande valore edito da Laterza è quello di una donna libera, forte, bella, intelligente, capace di coniugare per tutta la vita il pensiero con l’azione. Una figura che tutti noi dovremmo conoscere e a cui ispirarsi per molti aspetti.


 

Dice l’autrice a proposito del suo La Sibilla. Vita di Joyce Lussu: “È importante ricordare oggi la vicenda di Joyce Lussu perché ci racconta un pezzo della storia di questo Paese (il ’900, secolo denso e complicato) da una prospettiva alternativa e propositiva. Joyce, oltre che una donna molto generosa e coraggiosa, è stata una mente lucida e aperta che ha saputo cogliere e indicare prima di altri molti temi di cui discutiamo oggi, come la pace, l’ecologia, i diritti delle donne, l’idea di un mondo più giusto per tutti, libero da sperequazioni e sopraffazione. La sua storia, la sua persona costituiscono un esempio anche politico di come si possa agire, di quello che si può fare persino nei momenti più terribili – come lo sono stati gli anni delle dittature nazi-fasciste – per opporsi alla violenza e all’ingiustizia, adoperandosi per convivere sulla base di principi civili”.

Per chi fosse interessato ad approfondirne la conoscenza, Silvia Ballestra dà qualche suggerimento: “Joyce ha scritto molto del futuro e delle cose importanti su cui è giusto riflettere, molti suoi libri sono in commercio o nelle biblioteche e chi vuole può trovare lì tanti spunti da analizzare. In particolare indicherei L’uomo che voleva nascere donna e Padre, padrone, padreterno. Parlano di pace e del ruolo delle donne nella storia, essendo quindi illuminanti sia sul passato che sul presente.

2)  Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone (Einaudi)

Secondo anno in finale al Premio Strega per Maria Grazia Calandrone, che già aveva colpito la giuria con il suo Splendi come vita, nella cinquina dell’edizione 2021. Stavolta è in gara con Dove non mi hai portata, sempre edito da Einaudi, e racconta così questa nuova esperienza: “Sono molto onorata e anche un po’ stupita, però stavolta meno spaesata: conosco quella che in poesia si definisce “procedura”, con preciso linguaggio burocratico. Ma i timoni delle barche-libro rimangono, come sempre, nelle mani del Caso”.

Nel 2021 la Calandrone fuse insieme poesia e narrativa per raccontare la storia della sua madre adottiva, mentre adesso l’autrice va ancora più a fondo, esplorando la prosa in tutte le sue dimensioni e utilizzandola per ripercorrere la primissima fase della sua vita, quella in cui venne abbandonata dalla madre biologica. I fatti furono alquanto tragici: Lucia, nell’estate del 1965, aveva un marito violento da cui era scappata, una bambina di otto mesi e un passato che – in quell’epoca – la rendeva colpevole di gravi reati. Non sapendo come gestire la situazione, lasciò la sua bimba su un prato di Villa Borghese, nella speranza che qualcuno la trovasse e le regalasse un futuro; l’intento non era però quello di ricostruirsi una nuova vita senza di lei, bensì di porre fine alla propria con un gesto drammatico. Dunque una storia intrisa di sofferenza che contiene tutti quegli elementi ricordati in precedenza da Melania G. Mazzucco, ma affrontati dalla Calandrone con una ritrovata serenità e il necessario distacco emotivo. “Ad essere onesta mettere su carta tutto ciò non è stato per me né doloroso (a parte alcuni momenti, come la lettura di una certa lettera), né terapeutico. Quando si scrive si diventa entomologi, l’ossessione è la lingua, più che la storia. In questo senso, possiamo forse dire che la scrittura sia terapeutica, perché impone un distacco chirurgico dalle emozioni personali, le restituisce epurate, come venute da un viaggio in territori che da soli, senza la guida ferma delle parole, non avremmo mai potuto raggiungere”.

Il linguaggio di Maria Grazia Calandrone, d’altra parte, risente in maniera forte del suo essere prima di tutto poetessa; il suo è uno stile unico e particolare, che denota in maniera originale ogni sua opera. “Il ritmo è fondamentale anche per la mia prosa, tanto che spesso vado a capo per motivi musicali. Mi piace infatti definire la mia scrittura “prosa musicale”. E poi mi è indispensabile lasciare il bianco intorno alle parole, uno spazio libero dove chi legge possa deporre la propria esperienza. La sua vita, se vuole, parola per parola”.

3)  La traversata notturna di Andrea Canobbio (La Nave di Teseo)

La traversata notturna di Andrea Canobbio è tra le opere più corpose di questa dozzina, un vero e proprio romanzo edito da La Nave di Teseo di oltre 500 pagine, da leggere con calma e attenzione. Nonostante la mole, il libro scorre via in maniera agile, i capitoli sono brevi e corredati di qualche foto per restituire la veridicità di quanto raccontato: questa non è soltanto narrativa, ma rientra nel genere dei memoriali di cui la Presidente Mazzucco parlava e – sempre come da lei anticipato – tratta il tema centrale della depressione, della disillusione, del senso di colpa: in una parola, della sofferenza che ha segnato tutti i protagonisti di questo libro. “La storia dei miei genitori è profondamente legata al tempo in cui sono vissuti: il Fascismo, la guerra, la ricostruzione, il cosiddetto miracolo economico e la crisi degli anni Settanta. Mi ha sempre colpito come la parabola della loro vita segua quella italiana: sembra quasi che mio padre abbia iniziato a star male nel 1968 come reazione alla messa in discussione della sua generazione. Ma, certo, la depressione endogena ha cause che non sono storiche, e stanno nella biologia e nella vita personale. Però in qualche modo è inevitabile: tutte le generazioni devono affrontare una certa disillusione. Forse la loro è stata più traumatica per i mutamenti radicali che la società ha attraversato negli anni Sessanta e Settanta”.


 

Ciò che colpisce nel leggere questo romanzo è la somiglianza della storia raccontata con quella di molte altre persone che conosciamo, forse persino con le nostre famiglie. È per questo che non si tratta soltanto di una vicenda personale o familiare, bensì di un racconto generazionale. Al contempo, La traversata notturna è anche un inno all’immaginazione, al simbolismo e all’amore, inteso nel suo senso più ampio.

Anche Canobbio, come altri autori, non è alla sua prima esperienza del Premio Strega: 23 anni fa il suo Indivisibili era arrivato in finale. Nel 2023 ritroviamo un uomo diverso, più maturo e per molti versi trasformato. “Il cambiamento più importante sta proprio nella possibilità di scrivere questo libro, di raccontare la storia della depressione di mio padre, la storia delle ferite nascoste di mia madre, la storia della nostra famiglia. 23 anni fa pensavo che non ci sarei mai riuscito. E non pensavo che affrontare il racconto della nostra infelicità mi potesse portare sulle tracce della felicità, che comunque c’era stata”.


 

4)  Come d’aria di Ada d’Adamo (Elliot)

È probabilmente l’opera più raccontata e mediatica di questa dozzina, per una serie di motivi che ne fanno presupporre la selezione finale all’interno della cinquina. Una casa editrice più piccola rispetto ai grandi colossi, la Elliot, si è imposta questa volta all’attenzione del Comitato Direttivo con un libricino piccolo, leggero quasi come il titolo che porta, presentato da Elena Stancanelli con la seguente motivazione: “Come d’aria è un libro che fruga dentro il cuore del lettore. Serviva la lingua esatta e implacabile di questa scrittrice per riuscire a sostenere un sentimento tanto feroce. C’è tutta la rabbia e tutto l’amore del mondo nel racconto di questa danza che lega due donne. Avvinghiate l’una all’altra, in una assoluta e reciproca dipendenza. Daria, la figlia, che comunica soltanto attraverso il suo irresistibile sorriso, Ada, la madre, catapultata suo malgrado in questa storia d’amore. Era una ballerina, Ada. E il corpo, di entrambe, è il centro di questo memoir sfolgorante per intelligenza, coraggio e misericordia. In questo libro si entra con enorme facilità, ma da questo libro si esce cambiati. C’è una tale quantità di vita, nelle sue pagine, da lasciarci senza fiato. Ci siamo noi, la fatica, la nostra inutile bellezza. Dalla prima lettura ho pensato che fosse una pepita d’oro, un dono, un abbraccio. Come avrebbe detto Bobi Bazlen, una perfetta e lacerante primavoltità”.

Ci sarebbe piaciuto moltissimo intervistare l’autrice di questo libro, che è davvero una piccola perla letteraria – e umana, aggiungerei –, ma purtroppo, come molti sanno, Ada d’Adamo è scomparsa pochi giorni fa, a causa di un tumore che le ha lasciato un tempo limitato per riflettere e poi agire. Il suo modo di prendere in mano le redini della fase finale della vita è stato quello di scrivere la storia di sé stessa e di sua figlia, malata sin dalla nascita di oloprosencefalia, una malattia poco conosciuta che impedisce il controllo dei movimenti, rende perennemente dipendenti da altri e provoca molto dolore. È anche per questo che, nella postfazione al libro, lo si definisce “un racconto di straordinaria forza e verità, in cui ogni istante vissuto è offerto al lettore come un dono”.


 

Questo è un libro che si legge nell’arco di uno, due giorni al massimo: in primo luogo perché è breve e scorrevole, ma soprattutto perché è magnetico; una volta che ci si immerge nelle vicende di Ada e di Daria – con i personaggi che ruotano loro attorno, angeli e demoni, amici e indifferenti, medici, genitori e malati – è impossibile interrompere la lettura senza continuare a pensarci, con il desiderio di tornare a far parte del loro mondo. Non perché sia un mondo affascinante, felice e avventuroso, tutto il contrario: è la sofferenza a prevalere, insieme alle storture, alle strade non previste, alle possibilità su cui nessuno si sofferma mai troppo e proprio per questo sono capaci di aprire porte che altrimenti non varcheremmo forse mai. È alquanto probabile che vi scenderà una lacrima o più: non ne abbiate paura, è il sintomo che siete sintonizzati. Sappiate, però, che una volta riposto il libro negli scaffali – probabilmente con l’intenzione di rileggerlo più a fondo a distanza di tempo – vi ritroverete ad essere delle persone diverse, accresciute dentro.

A 55 anni Ada d’Adamo si è spenta circondata dai suoi affetti più cari, con il pensiero rivolto a quella figlia tanto amata ma inevitabilmente fonte di preoccupazione e rinunce; a quanto pare, però, sarebbe riuscita a ricevere l’annuncio che il suo scritto è entrato nella dozzina dello Strega: un ultimo regalo riservatole dalla vita. Per noi, invece, Come d’aria è per l'appunto un dono – lo si è già detto sopra – perché leggere questa storia ci consente di crescere e di riflettere, di aprire il cuore ed empatizzare, ma soprattutto di imparare a non giudicare dall’esterno quando non si conoscono a fondo le situazioni.

“A novembre 2016 eri ricoverata in ospedale per un nuovo intervento, il terzo, allo stomaco. E così avevo saltato la consueta ecografia di controllo al seno. Contavo di rimediare non appena tornata a casa, una volta ripreso il ritmo regolare che scandiva le nostre giornate: casa, scuola, centro di riabilitazione”. Basta questo passaggio per farci capire quanto questo libro spazzi via l’illusoria certezza del nostro tempo: “se vuoi, puoi”; “se puoi sognarlo, puoi farlo”. Frasi da slogan che niente hanno a che fare con le moltissime situazioni in cui la vita, semplicemente, va in un altro modo, segue un corso tutto suo che non avevamo previsto. E allora non resta che adattarsi al meglio, talvolta trascurando qualcosa, lasciando indietro noi stessi, con il rischio che ciò si riveli fatale. Commovente, potente e intimamente personale, questo è il libro che sin dalle prime pagine ha colpito i giurati e lo ha fatto emergere nella quantità di opere arrivate. Lo ricorda così anche Melania G. Mazzucco, che ne ha apprezzato la forza emotiva e narrativa nata dalla verità e dalla necessità di trasferire sé stessa nella pagina, prima che fosse troppo tardi.

Forse lo ritroveremo nella cinquina finale – o almeno ci piace sperarlo – ma se anche così non fosse, questo piccolo memoir onesto e sincero, intriso di dolore e al contempo di un profondo amore, è uno di quei libri che consigliamo di leggere. Non potrete restarne indifferenti.  

5)  Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (Laurana Editore)  

Proposto dal professor Alessandro Barbero – di cui qui su Affaritaliani.it abbiamo parlato più volte in occasione dell’uscita di suoi libri – Ferrovie del Messico salta subito all’occhio perché si distingue tanto nel formato quanto nel contenuto dagli altri concorrenti. Un volume piccolo in larghezza e altezza, con una semplice cover bianca e nera, senza tanti fronzoli o abbellimenti: il messaggio che rimanda è l’importanza di ciò che si trova all’interno di quelle 816 pagine, che per essere lette richiedono tempo, motivazione, sufficiente spirito critico e curiosità storica. Non è un libro per tutti, quello di Gian Marco Griffi, ma è un vero lavoro di qualità, di caratura non soltanto letteraria, bensì storica e di ricerca. A pubblicarlo con il sottotitolo Un romanzo d’avventura e la postfazione di Marco Drago è Laurana Editore, che ne ha colto il potenziale e ci ha fortemente creduto.


 

Il libro è ambientato nel periodo della Repubblica Sociale Italiana (febbraio 1944), ad Asti: a poco a poco l’autore costruisce un affresco ricco di dettagli, accadimenti, usi e costumi, ideologie differenti, progressi e momenti vergognosi, avvalendosi di uno straordinario stuolo di personaggi. Ciascuno con la propria storia, identità e bagaglio di contraddizioni, gli uomini e le donne di Ferrovie del Messico raccontano uno spaccato del passato del nostro Paese con incredibile ironia, talvolta goliardici e grotteschi, altre volte eroici e geniali. Originale è anche lo stile narrativo, che strizza l’occhio a molti maestri del passato, come racconta l’autore stesso. “Guardo a così tanti modelli che non saprei quali citare. Borges e Bolaño sono senza dubbio punti di riferimento, anche se in maniera molto diversa: dalla lettura di Borges ho provato a imparare l’intreccio tra fantastico e realtà, dalla lettura di Bolaño la sua brama di raccontare storie, come se fosse l’unico modo per contrastare il pensiero della morte. Ma ci sono così tanti altri modelli dai quali ho provato a imparare la difficilissima arte di raccontare storie mediante l’uso del linguaggio: da Cervantes a Mari, dall’Horcynus Orca di D’Arrigo all’Oga Magoga di Occhiato, passando per Joyce e Eliot, ma qualunque elenco sarebbe comunque incompleto”.

Ne scaturisce, per l’appunto, uno stile narrativo innovativo, che bene è stato accolto dalla giuria del comitato. Spiega ancora Griffi: “Il linguaggio si modella e rimodella continuamente attraverso l’adozione di un lessico sovraccarico di significati, nel quale si intrecciano diversi livelli, dall’italiano letterario alla parlata popolare e al dialetto italianizzato, fino al tentativo di riscoprire parole in disuso per metterle nuovamente in circolazione, oppure all’utilizzo di parole comuni (talvolta anche abusate) per tentare di ridargli nuova vitalità”.

Non manca, come abbiamo detto, l’uso sapiente dell’ironia, che per l’autore è un elemento essenziale del proprio approccio alla vita. “L’ironia è il mio modo di osservare il mondo, oppure, se vogliamo metterla in un altro modo, diciamo pure che la mia scrittura fa dell’ironia un suo caposaldo. Certo, ci sono vari livelli di ironia, ma è bello usarli tutti, dall’ironia amara a quella crudele, fino a sconfinare nella satira o nella parodia, altro mezzo che amo particolarmente. Per i contenuti no, ma per struttura Ferrovie del Messico è anche un grande gioco, una grande burla: nella fase di scrittura e di lavorazione non ho mai perso di vista il progetto di scrivere la parodia di una parodia, ovvero di giocare con una certa idea di opera-mondo per restituirne una versione beffarda, burlesca, anche nelle parti più drammatiche o tragiche. Ci sono molti modi per affrontare il dolore e il trauma: io ho scelto di mascherare (molto spesso) la tragedia nella commedia, talvolta anche nella farsa (viceversa spesso la farsa e la commedia volgono in tragedia); in tal senso l’ironia e la parodia sono mezzi importantissimi”.

6)  Le perfezioni di Vincenzo Latronico (Bompiani)

Presentato allo Strega da Simonetta Sciandivasci – di cui noi di Affaritaliani.it abbiamo recensito il libro I figli che non voglio (Mondadori) – Le perfezioni di Vincenzo Latronico è un romanzo che ben si colloca nel panorama dipinto in apertura dalla Presidente Melania G. Mazzucco, specie per le tematiche che ruotano attorno alla disillusione e ai sogni infranti. Una storia amara che pone al centro la ricerca dell’autenticità, in un mondo sempre più minacciato dalla realtà fittizia ed edulcorata che i social media ci presentano ogni giorno.


 

Leggiamo dalla sinossi della casa editrice Bompiani: “Tutti vorrebbero la vita di Anna e Tom. Un lavoro creativo senza troppi vincoli; un appartamento a Berlino luminoso e pieno di piante; una passione per il cibo e la politica progressista; una relazione aperta alla sperimentazione sessuale, alle serate che finiscono la mattina tardi. Una quotidianità limpida e seducente come una timeline di fotografie scattate con cura. Ma fuori campo cresce un’insoddisfazione profonda quanto difficile da mettere a fuoco. Il lavoro diventa ripetitivo. Gli amici tornano in patria. Il tentativo di impegno politico si spegne in uno slancio generico. Gli anni passano. E in quella vita così simile a un’immagine – perfetta nel colore e nella composizione, ma piatta, limitata – Anna e Tom si sentono in trappola, tormentati dal bisogno di trovare qualcosa di più vero. Ma esiste?”.

7)  Rubare la notte di Romana Petri (Mondadori)

Romana Petri è senza dubbio una delle scrittrici più lette, affermate, apprezzate e prolifiche di questa dozzina. I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo, da anni si occupa con successo di molteplici attività legate al mondo della cultura e si è cimentata – sempre con ottimi risultati – in tanti generi diversi. Ci siamo chiesti, e lo abbiamo chiesto anche a lei, che cosa possa voler dire per una scrittrice del suo calibro vincere il Premio Strega. Ci ha risposto così: “Beh, sarebbe una grandissima soddisfazione. Ho dedicato la vita intera a questo lavoro. Ho pubblicato 26 libri, e questo vuol dire aver rinunciato (con grande piacere) a molto svago. In fondo, scrivere è per me un po’ come il volo per il mio amato Tonio. Ho vissuto così, in compagnia dei miei tanti personaggi”.

Tonio sta per Antoine de Saint-Exupéry, scrittore che tutti noi conosciamo per aver dato alle stampe Il piccolo principe. L’opera è senza dubbio un capolavoro tra i più letti nella storia della letteratura, ma l’uomo che la immaginò era a sua volta il potenziale protagonista di un romanzo, poiché visse in modo pieno, ricco di avventure, non conforme ad alcuna regola e anche immerso nel mistero. Nel suo Rubare la notte, edito da Mondadori e proposto al Premio Strega da Teresa Ciabatti, la Petri ne racconta le vicende attraverso la sua voce inimitabile. “Ho scritto un romanzo su Saint-Exupéry soprattutto per liberarlo da Il piccolo principe (storia bellissima), che dopo la sua morte lo ha praticamente fagocitato. Volevo che chi lo ricorda ormai solo per quello sapesse che da vivo era stato uno degli scrittori francesi più amati nel mondo, che le sue opere erano tradotte ovunque e che soprattutto in America era una vera e propria leggenda. E poi perché come autore l’ho amato e studiato molto. Ha creato un nuovo Umanesimo e un nuovo concetto di coraggio, come disse Gide nella prefazione a Volo di notte: un coraggio che non è più né atletismo, né giovanile incoscienza, bensì un coraggio che significa portare a termine un dovere accettato e ritenuto giusto. E perché non era un individualista ma un uomo le lottava per gli uomini, per la giustizia e sempre contro la violenza della guerra, che vedeva come una malattia”.


 

Rubare la notte è tra i titoli di più recente uscita presenti nella dozzina, ma l’autrice ha già avuto il tempo di presentarlo in alcune città, di rilasciare interviste e di ricevere un feedback più che positivo nei confronti di quest’opera letteraria a cui tiene moltissimo. Ci racconta infatti: “In breve tempo questo libro mi ha dato già molte soddisfazioni. Prima tra tutte la magnifica copertina della pittrice Rita Albertini. È magica. Quando mi è arrivato il libro a casa ho avuto l’impressione che avesse addosso un mantello. Il pubblico lo sta apprezzando e durante le presentazioni ricevo domande molto interessanti. Ma soprattutto vedo un’attenzione particolare a questo mirabolante personaggio, a questo uomo extra-ordinario che ha amato il volo, sua madre, sua moglie, anche altre donne, ma sempre con l’unico scopo di volare e volare e volare. Mi sto accorgendo che Tonio resta molto in chi legge Rubare la notte. Credo sia per la sua autentica nobiltà d’animo. Perché era un po’ pazzo, ma di una bontà e generosità disarmanti”.

8)  Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino (Feltrinelli)

Rosella Postorino ha scritto – come altre autrici presenti nella dozzina, di cui sottolineiamo l’alta presenza di donne – numerosi libri di valore e di successo; la si ricorda però prima di tutto per Le assaggiatrici, il suo bestseller sempre edito da Feltrinelli nel 2018 che ha collezionato una lista corposa di premi ed è stato tradotto in trenta lingue, ora in attesa del film che ne verrà tratto per la regia di Cristina Comencini. Ad arrivare nella dozzina del Premio Strega 2023 è invece Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli editore), una delle poche storie semifinaliste in cui la presenza della guerra è significativa e dirompente. Non si tratta dell’unico tema trattato in questo romanzo di grande respiro e profonda analisi, ma di certo è la cornice di fondo che delinea le storie dei bambini protagonisti, dei drammi a cui vanno incontro le famiglie, del Paese che cambia (Sarajevo, in questo caso) e delle vite interrotte.


 

Il tema della guerra non ha mai smesso di essere attuale, purtroppo – scrive l’autrice a proposito del suo lavoro – In Occidente, per un periodo abbastanza lungo, ce ne siamo sentiti immuni, mentre buona parte del mondo restava in guerra. C’è una tendenza alla rimozione: la guerra in Bosnia, per esempio, è stata da molti dimenticata, tanto che quando Putin ha invaso l’Ucraina si parlava della prima guerra in Europa dopo il secondo conflitto mondiale. La Storia umana è una storia di guerre”. Una visione tanto vera quanto crudele, che ancor più lo diventa se a pagarne lo scotto sono i più piccoli, le generazioni fragili e indifese, i deboli o gli invalidi. Eppure, in questa storia drammatica che stringe il cuore in una morsa, si aprono più volte spiragli di speranza, ai quali la Postorino fa riferimento nelle sue parole, quando racconta i bambini di Mi limitavo ad amare te: “Ogni vita è una contraddizione, un’alternanza di buio e di luce, anche quella dei miei protagonisti, che diventano grandi nonostante tutto. La loro più grande risorsa è il legame che instaurano l’uno con l’altro e che il romanzo segue per quasi vent’anni. Il titolo, che viene da un verso del poeta bosniaco Izet Sarajlic, allude proprio al fatto che, quando la Storia ci travolge, tutto quel che possiamo fare è aggrapparci alle relazioni che il destino ci concede”.

Sebbene siamo pienamente nel campo del romanzo, anche in questo caso c’è un fondamento di verità storica, tale da rendere il tutto ancora più ancorato alla realtà dei fatti e per questo valido da un punto di vista documentativo, oltre che narrativo. Spiega ancora la Postorino: “Nel 2019 lessi un articolo che parlava dei bambini di Sarajevo portati in Italia nel 1992 per scampare alle bombe. Mi colpì il fatto che per salvarsi avessero perso tutto: identità, lingua, terra, ma soprattutto che per molti anni non avessero più saputo nulla neppure delle loro madri. Li ho cercati, ho parlato con alcuni di loro, sono ritornata in Bosnia, e dopo un anno e mezzo ho cominciato a scrivere un romanzo d’invenzione che parlava dello strappo come dimensione esistenziale ineluttabile”.

9)  Cassandra a Mogadiscio di Igiaba Scego (Bompiani)

Secondo romanzo in gara per Bompiani, unica casa editrice con due titoli nella dozzina. Cassandra a Mogadiscio è il libro della pluripremiata e stimata Igiaba Scego, giornalista e scrittrice romana con già molte opere di valore alle spalle. Dopo aver cambiato editore numerose volte e aver collezionato riconoscimenti importanti, giunge ora alla semifinale del Premio Strega con un memoir coinvolgente e personale, dove ancora una volta tornano i temi del trauma e della guerra, in questo caso nella sua violenta forma dello sradicamento. Il parallelismo con Cassandra le viene allora naturale, a fronte delle tante grida inascoltate; l’autrice sceglie però, con estremo coraggio, di non coltivare dentro di sé il rancore e la delusione, ma di celebrare la fratellanza, la possibilità del perdono, della cura e della pace, attraverso un grande libro sul nostro passato e il nostro presente.


 

Ce lo racconta con dettagliata precisione la sinossi scritta dalla casa editrice: “A Roma, il 31 dicembre 1990, una sedicenne si prepara per la sua prima festa di Capodanno: indossa un maglione preso alla Caritas, ha truccato in modo maldestro la sua pelle scura, ma è una ragazza fiera e immagina il nuovo anno carico di promesse. Non sa che proprio quella sera si compirà per lei il destino che grava su tutta la sua famiglia: mentre la televisione racconta della guerra civile scoppiata in Somalia, il Jirro scivola dentro il suo animo per non abbandonarlo mai più. Jirro è una delle molte parole somale che incontriamo in questo libro: è la malattia del trauma, dello sradicamento, un male che abita tutti coloro che vivono una diaspora. Nata in Italia da genitori esuli durante la dittatura di Siad Barre, Igiaba Scego mescola la lingua italiana con le sonorità di quella somala per intessere queste pagine che sono al tempo stesso una lettera a una giovane nipote, un resoconto storico, una genealogia familiare, un laboratorio alchemico nel quale la sofferenza si trasforma in speranza grazie al potere delle parole. Parole che, come un filo, ostinatamente uniscono ciò che la storia vorrebbe separare, in un racconto che con il suo ritmo ricorsivo e avvolgente ci svela quanto vicende lontane ci riguardino intimamente: il nonno paterno dell’autrice, interprete del generale Graziani durante gli anni infami dell’occupazione italiana; il padre, luminosa figura di diplomatico e uomo di cultura; la madre, cresciuta in un clan nomade e poi inghiottita dalla guerra civile; le umiliazioni della vita da immigrati nella Roma degli anni Novanta; la mancanza di una lingua comune per una grande famiglia sparsa tra i continenti; una malattia che giorno dopo giorno toglie luce agli occhi”.


 

10)  Il continente bianco di Andrea Tarabbia (Bollati Boringhieri)

Ecco un’altra opera di sicuro interesse storico, psicologico, letterario. Il continente bianco fa uso dell’immaginazione – e del precedente testo L’odore del sangue di Parise – partendo tuttavia da un’ambientazione realistica che ci conduce al presente con un filo diretto. Protagonista del romanzo è infatti Marcello Croce, carismatico leader di estrema destra, simpatizzante di forze fasciste e non contrario all’uso della violenza; un venticinquenne che ha trovato il suo posto nel mondo anche grazie alla generale indifferenza con cui la società accoglie il fanatismo di certe frange neofasciste, non percependone la pericolosità. Andrea Tarabbia, in questo bel libro edito da Bollati Boringhieri, studia il suo protagonista come si fa con un animale da laboratorio o un soggetto di analisi, cercando di portarne alla luce i motivi profondi del suo stile di vita, dei valori in cui crede, del potere che ama esercitare. E nel fare tutto ciò non si limita soltanto alla politica, ma entra con occhio invasivo e prepotente nella sua vita privata di maschio alfa, dominante. La relazione che Marcello intreccia con Silvia è infatti intrisa di sottomissione e perversione, basandosi sul culto del capo e della forza che, a parere dell’autore, esiste tanto nell’ambito sentimentale – a livello personale o di coppia – quanto in quello sociale/collettivo.


 

“Nel linguaggio comune, in questi anni, si parla spesso dell’uomo forte – spiega ad Affaritaliani.it Andrea Tarabbia – che tanto per cambiare è un mito della destra: il leader carismatico, capace di cacciare i cattivi e prendersi cura di tutti coloro che credono in lui e gli somigliano. Le figure dei grandi condottieri, dei capi-popolo e dei dittatori rispondono tutte, più o meno, a questo identikit, alla cui base c’è il fascino che esercita chi prende su di sé (che poi succeda davvero o no è un’altra questione) queste responsabilità”. Dunque un ripetersi della storia, che pericolosamente trova la sua attualità proprio oggi, in un’Europa sempre più sovranista, razzista e conservatrice. Ma come mai tutto ciò accade di nuovo? “Probabilmente è dovuto a un insieme di fattori economici, psicologici, culturali e sociali – dice a tal proposito l’autore – In generale, nella Storia, a periodi di crisi economica o alle grandi epidemie sono sempre succedute epoche reazionarie: si individua un nemico e si costruisce su di lui (meglio: contro di lui) una narrazione che mira ad attribuirgli le colpe di tutti i mali. Nella Germania degli anni Venti, devastata dalla guerra e povera, covava un risentimento sociale che fu la base su cui si edificò il Nazismo; in Italia, negli stessi anni, venne instaurata una dittatura”.

Ma se tutto ciò accadde è anche per merito di una certa condiscendenza diffusa, come bene spiega Tarabbia nel suo libro: “Da molti anni è in atto nel Paese un tentativo, peraltro goffo, di restaurazione culturale (in questi giorni, solo per fare due esempi: la retorica del made in Italy sul cibo e il liceo sovranista), dietro cui si cela un patriottismo d’accatto; ma nessuno sta facendo nulla per contrastare questa retorica vuota e un po’ ottusa, e certi termini, certi modi di pensare stanno entrando nel linguaggio comune e, dunque, nel nostro modo di pensare”.

11)  Tornare dal bosco di Maddalena Vaglio Tanet (Marsilio)

L’opera in concorso di Maddalena Vaglio Tanet, giovane autrice di talento che nel 2021 era arrivata finalista al Premio Strega Ragazzi come miglior esordio con il libro illustrato Il cavolo di Troia e altri miti sbagliati, è tra quelle che più si diversificano dalle altre. Lo si nota sin dalla cover, con quel tripudio di foglie, alberi e natura: il bosco è l’ambiente in cui è ambientato questo romanzo che, come genere, strizza l’occhio al mistery. In realtà, scopriremo ben presto che anche qui torna il tema inquietante della morte e del suicidio, tuttavia viene trattato in maniera diversa rispetto ai titoli visti finora, con uno stile narrativo che rimanda al thriller psicologico.

Lo spiega bene l’autrice stessa, che ha scritto Tornare dal bosco, edito da Marsilio, a partire da una storia accaduta realmente e da lì ha proseguito sui sentieri dell’immaginazione. “Il romanzo reinventa e trasfigura una vicenda a cui penso da quando ero ragazzina e che all’epoca mi è arrivata in maniera frammentaria e obliqua, attraverso allusioni, informazioni sparse, scampoli di conversazioni. Di questa storia delicata, dolorosa, non si parlava mai apertamente. La cugina di mio nonno, maestra, non sposata e senza figli, era parte integrante della famiglia. Viveva accanto ai miei nonni in una casa comunicante e pranzava e cenava con loro. A quel tempo era già in pensione, amatissima da generazioni di ex allievi. Era piuttosto diversa dalle altre donne che mi hanno cresciuto: mia madre, mia nonna, la mia bisnonna, definite dal loro essere appunto madri e sposate o divorziate o vedove. Lei invece era forse più sola, ma anche ai miei occhi più libera. Non cucinava, non puliva la casa e non faceva niente di quello che ci si aspettava da una signora. Aveva un carattere svagato e distratto e sovente si perdeva nei suoi pensieri, un tratto in comune che ci rendeva complici. A un certo punto, non saprei ridire esattamente quando, ho capito che nella vita adulta della maestra era successo qualcosa che l’aveva segnata. Alla fine degli anni Sessanta era scomparsa per giorni, quindi era tornata a casa mezza morta di fame e di sete, bagnata fradicia di pioggia, sporchissima. Dov’era stata, e perché se ne era andata? Non volevano dirmelo. Era una storia tragica. Più avanti ho saputo: una sua allieva, una ragazzina quasi dodicenne, si era uccisa gettandosi nel torrente dopo un litigio con i genitori. La maestra si sentiva responsabile perché aveva comunicato lei alla famiglia che quel giorno la bambina non era andata a scuola. Si sentiva in colpa. Il dolore l’aveva travolta. A quel tempo avevo più o meno l’età della ragazzina e la storia mi aveva molto turbata”.


 

Di nuovo rintracciamo all’interno di questo romanzo avvincente i temi della perdita, dell’incomunicabilità, della solitudine, del lutto: forse in questo romanzo, più che in ogni altro, si esplora la dimensione sociale e collettiva della ferita, quella da cui sanguina il nostro Paese. In questo caso il luogo in cui l’autrice sceglie di ambientare questo dramma è il bosco, elemento carico di molteplici significati. “Investita dalla perdita, Silvia non sopporta di parlare, di essere osservata, confortata. Le sembra che non esista conforto possibile per quello che è successo. Vorrebbe disfarsi della sua coscienza umana, farsi bosco. Eppure, oltre al dolore, sono umani anche la compassione, la cura tramite i gesti e le parole, l’amicizia, il bisogno di amore. A poco a poco lei lo riscopre. Un altro aspetto che mi interessava molto era la costruzione di un personaggio non abituato a nominare i sentimenti, a parlare dei suoi dolori. È un tratto di mentalità collettiva, riassunto dai modi di dire comuni “non farla lunga” e “tiriamo avanti”. Del resto restiamo tutti misteriosi, in una certa misura, elusivi persino per noi stessi. Scegliere di vivere, di ridare il proprio assenso alla vita, come fa Silvia, non è una questione di ragionamento o di comprensione. Dal bosco non si torna guariti. A volte, semplicemente, si torna”.

12)  Una minima infelicità di Carmen Verde (Neri Pozza)

Reduce dal successo del 2021, quando Neri Pozza ha conquistato l’ambito Premio Strega con Due vite di Emanuele Trevi, anche quest’anno Neri Pozza è pienamente soddisfatta grazie alla presenza di Una minima infelicità nella dozzina dello Strega. Stavolta l’autrice che la rappresenta è Carmen Verde, qui al suo fortunato esordio letterario. Non è certo da tutti pubblicare un primo libro e conquistare già un risultato di questo calibro, che lei commenta così. “Mi sento onorata: il Premio Strega, così importante nella storia della letteratura italiana, acquista ora per me anche un valore privato, personale. E sorpresa perché, con un inatteso bellissimo cortocircuito, tocca a Una minima infelicità portarmi la felicità più grande. Affronto il viaggio sapendo che ad aver meritato la candidatura è un libro a cui ho lavorato molto, con pazienza e dedizione”.


 

In questo caso il rapporto genitori-figli prende forma attraverso la relazione complicata tra Annetta e sua madre Sofia Vivier: una donna bella, inquieta, elegante, per nulla in sintonia con quella figlia sgraziata e taciturna che quasi stenta a riconoscere come propria. Se ne vergogna persino, a volte, tanto che quando in casa entra la dispotica Clara Bigi – guardiana della vita domestica e delle giornate di Annetta – nessuno in famiglia sembra più preoccuparsi di lei. Per la protagonista, invece, è l’acuirsi di un incubo, la caduta sempre più estrema verso l’infelicità e la rinuncia, specie dopo la morte del padre. Scrive di questo libro Dacia Maraini: “Ho letto il romanzo di Carmen Verde. Mi è piaciuto. Ha un ritmo veloce e leggero, come un treno che attraversa la notte con tutte le luci accese. Guardi stupito e ti chiedi chi siano quelle sagome che appaiono dietro i vetri. L’autrice conosce la geometria dei segreti e sa come giocare con il lettore”. E ancora, spende parole di lode anche la scrittrice Veronica Raimo: “Carmen Verde ha una voce sorprendente e un immaginario così personale da risultare splendidamente spiazzante. Una minima infelicità è un libro pieno di ossessione e dolcezza, di crudeltà e pietas. Ha dentro la meravigliosa complessità di certe miniature, dove la cura per i dettagli rivela un mondo insieme familiare e straniato. I suoi personaggi si muovono sul bilico morale dei grandi classici e custodiscono l’oscura sensualità e abiezione che sanno regalarci scrittrici come Némirovsky o Lispector”.

All’autrice noi abbiamo invece chiesto una domanda più generalista, che riassume bene tutto quanto è stato detto nel corso di questo speciale ed è quindi perfetta come chiusura. Il tema del rapporto complicato tra genitori e figli è tra le tematiche principali di questo Strega 2023: come mai, a suo parere, risulta così attuale e urgente da raccontare? “L’onda lunga della pandemia si è abbattuta su quest’edizione del Premio Strega, ha detto Melania G. Mazzucco. Sento la sua riflessione molto vera. È in rapporto al tempo in cui sono stati scritti che romanzi pur molto diversi tra loro possono incontrarsi e riconoscersi. Di quali vuoti è fatta la nostra vita di questi ultimi anni, chi piangiamo? Siamo anche i figli di quei genitori i cui corpi hanno subìto l’ingiuria di una malattia sconosciuta, corpi che non abbiamo più potuto toccare, nemmeno per prepararli alla morte. È fatale che ritornino e che ci guardino dalle nostre pagine mute... Nel mio romanzo evito ogni riferimento personale eppure, nascondendolo in una storia d’invenzione, è il mio dolore di figlia che espongo. Annetta, l’eterna bambina protagonista di Una minima infelicità che volge lo sguardo a sua madre assente come a una stella fissa, divento io stessa col mio tributo d’amore per mia madre, inghiottita da un ospedale durante il Covid e che non ho mai più rivisto. Perduta, ma viva nella mia mente. Il mio libro è anche dedicato a lei”.


 

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