Congresso del Pd, Sx ormai smarrita. Letta "iperattivo" andrà veramente via?

Il Congresso del Pd di febbraio si avvicina e c’è grande fermento nel partito: che fine farà il segretario dem Letta? Il commento

Di Giuseppe Vatinno
Politica

Letta e il Congresso del Pd, la sua riconferma è ipotesi improbabile però nulla è scontato: analisi

Il Congresso del Pd di febbraio si avvicina e c’è grande fermento nel partito: candidati che vengono, candidati che vanno, candidati virtuali, candidati reali, conti con la Storia e conti con la pagnotta, sempre necessaria. Grandi pensieri e pensieri piccini si contrappongono sull’agone congressuale. Che la situazione sia incandescente lo dimostra anche il fatto che sia ricomparso il refrain del cambio del nome, ora va Partito democratico del Lavoro, il cui acronimo PdL non depone bene quando si va alle urne.

Sembra che si sia tornati al post Bolognina quando si sentiva di tutto di più, dai “Club” di giacobina memoria lanciati dalla rivista MicroMega diretta da Paolo Flores d’ Arcais, alla successiva “cosa rossa” di Nanni Moretti e dei Girotondi. Nel Pd riemerge ciclicamente il “partito dei sindaci” a scapito del “partito dei governatori”. Il primo vide in prima fila Francesco Rutelli e Massimo Cacciari, rispettivamente sindaco di Roma e Venezia.

Inoltre si agita il perenne spettro della sinistra e cioè quello della “scissione continua” che non può che fare la gioia degli avversari, cioè il centro – destra, che ha comprato i popcorn e assiste divertito alla scena, anche se pure lì qualche pericolosa crepa carsica c’è e la vicenda Calenda – Meloni sta a dimostrarlo. Insomma grande è la confusione sotto il cielo propizio è il momento, come diceva Mao. L’immagine del Pd che emerge è quella di un grande corpaccione in cerca di una identità. E che ci debba essere una opposizione forte e strutturata è un balsamo per la democrazia e questo lo sa anche il centro – destra, perché se non c’è un sistema di pesi e bilanciamenti a rischio è il Sistema Italia nel suo complesso.

Senza entrare nel merito dei nomi in gioco che è esercizio, in questa fase, di stucchevole retorica, dato che ancora nulla di definitivo si è delineato, possiamo però osservare alcune dinamiche come la contrapposizione solita tra il Pd “partito delle Imprese” e il Pd “partito del Lavoro” che non è certo di poco conto, visto che si tratta di due visioni del mondo non in contrapposizione ma proprio opposte. Ed è proprio in questa contrapposizione che origina dalla visione socialista e quella comunista che nascono tutti i guai e le tensioni di questi tempi inquieti.

La scelta è tra il “partito delle tartine e della Ztl” e quello di chi lavora in fabbrica o in ufficio. Al primo si iscrivono gli amministratori delegati al secondo i lavoratori. Insieme non possono stare perché se no si tornerebbe alle Corporazioni di fascista memoria. Certo che chiamare Partito del Lavoro un partito che –sotto Renzi- ha abolito l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori voluto dal socialista Gino Giugni, appare proprio un grande azzardo.

L’articolo 18 fu, giova ricordarlo, l’ultimo baluardo della sinistra, e per decenni Confindustria e la destra liberista (meno l’MSI) cercarono di abbatterlo e per uno di quei tanti scherzi del destino fu invece proprio l’erede del Partito Comunista Italiano (PCI) a decretarne la sua fine. In tutto questo il segretario dimissionario Enrico Letta non pare così rassegnato a tornare a fare il professore universitario in Francia. Forse all’inizio lo pensava ma ora certamente gli si sono aperte altre prospettive e l’aver spostato il Congresso a tanti mesi dalle sue dimissioni adesso acquista il crisma di un (possibile) progetto strategico.

Sicuramente Letta vuole guidare la trasformazione e in un periodo di grande confusione per il Pd la sua figura automaticamente si rivaluta. Poi potrebbe avere anche qualche ambizione personale inizialmente non tanto scontata. Ad esempio, per restare nell’attualità immediata, basti guardare come Letta ha gestito in prima persona la forte polemica con Carlo Calenda dopo la sua visita a Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Sembrava un segretario nel pieno dei suoi poteri e non certo dimissionario.

La sua riconferma è ipotesi improbabile però nulla è scontato. Il buon vecchio “usato sicuro” di bersaniana memoria, ha sempre il suo fascino quando il rischio è quello di lanciarsi in avventure come sarebbe stata quella di Soumahoro e Zan, oppure potrebbe essere quella della Schlein.

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