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Resistere o ri-esistere? Impariamo dalla tecnica del kintsugi

Resistere o ri-esistere? Impariamo dalla tecnica del kintsugi

Resistere o ri-esistere? Impariamo dalla tecnica del kintsugi. È l’unione di due parole, “kin” (oro) e “tsugi” (riparare, riunire), ed è un’antica tecnica, sviluppata in Giappone a partire dal quindicesimo secolo, che consiste nell’utilizzare un metallo prezioso per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica rotto, rendendolo così un’opera d’arte unica, evidenziando le crepe anziché nasconderle.

Post-covid tra guarigione e resilienza. Resistere con la tecnica del kintsugi

La filosofia profonda del kintsugi, però, va ben oltre la semplice pratica artistica, ci parla di guarigione e resilienza: riparato con cura, l’oggetto danneggiato diventa più forte, più bello, più prezioso di quanto non lo fosse prima di andare in frantumi. Occorre portare quindi l’attenzione sull’oro che mettiamo tra le crepe. Fuori dalla metafora: possiamo accettare e riconoscere i nostri trascorsi, compresa la scoperta della nostra fragilità, della nostra vulnerabilità e dell’insicurezza per il non sapere ancora bene chi siamo diventati o chi diventeremo dopo questo grande processo in atto.

La vita ci spezza tutti. Solo alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati, scrive Ernest Hemingway. L’importante è valorizzare quindi tutte le nostre sfumature comprendendo che sono proprio queste a caratterizzare la nostra unicità. Proviamo a vedere allora come la filosofia del kintsugi ci può aiutare a capitalizzare le lezioni che abbiamo appreso in questi mesi e, tra qualche lezione teorica e la recente pratica di vita che cosa possiamo sperimentare di “nuovo” e di propositivo per questa nuova fase. Ovviamente non mi riferisco alle lezioni scolastiche. Anche se la scuola a distanza è stata una prova tanto difficile quanto ricca. Per tutti. Sia i docenti, sia gli allievi e le famiglie si sono trovati sovraccaricati di responsabilità e disorientati e sono andati in ansia. Spesso si sono sovrapposti e sostituiti, senza riuscire a lasciare quello spazio, quella relazione, vuota della loro presenza che tanto fa crescere i figli.

Accadimenti che aprono diverse stimolanti domande… : è questo l’importante? E’ quello di cui i figli hanno bisogno? O è un modo di interferire e privarli del salutare mettersi in gioco in autonomia? Sappiamo che i bambini e i giovani hanno più resilienza degli adulti? Sappiamo che ogni prova, ogni sforzo è la via per crescere? Sappiamo che le ali della farfalla mai potranno volare se prima il bruco non ha fatto lo sforzo di uscire dal bozzolo? Sappiamo che per il bambino sa stare da solo, e per lui non si tratta di amara solitudine? Sappiamo che nel tempo vuoto c’è la migliore creatività? Ecco quanta ricchezza di questioni su cui riflettere offre l’esperienza ancora in atto. Possiamo trasformarla da limite a risorsa? Questa la sfida che non dobbiamo perdere.

Questa la spinta che ci deve portare a cercare risposte educative equilibrate. Ad acquisire comportamenti nuovi. A concentrarci sul potenziamento della consapevolezza di essere testimoni e modelli cui i figli guardano minuto per minuto: sul nostro esempio infatti strutturano il proprio rapporto con la vita, con le difficoltà, con le prove da superare. In generale suggeriamo di considerare questa babele della fase che sta iniziando come un’occasione per attivare il pensiero divergente e la creatività. Queste qualità sono indispensabile ora in cui ciò che ci manca, ciò che non va bene è di più di quel che va bene e dobbiamo generare pensieri altri e aprire strade nuove. Facciamoci forti anche del metodo scientifico che gli “esperti” ci hanno mostrato ripetutamente. Il metodo scientifico è fatto di osservazioni, lunghe, accurate, meticolose. Di poche certezze. Frutto di lunghe validazioni, sempre pronte ad essere messe in discussione. Facciamolo nostro lasciando l’abitudine al pensiero semplice, univoco.

Al tutto e subito. Noi che in passato abbiamo cercato certezze, e ci siamo accontentati anche di illusioni pur di averle. Noi che ci siamo proposti per troppo tempo come vincenti, sicuri, sempre con la risposta giusta e la soluzione in tasca. Padroni del modo. Nessuno ha la verità in tasca, spesso si naviga a vista. Gli eventi legati al coronavirus hanno fatto venir meno l’idea del controllo: sempre possibile, su tutto. Questa è una lezione importantissima anche peri nostri figli. Un dono formativo: se vorranno imparare a relazionarsi con gli altri devono infatti contemplare che pochissime sono le certezze, che ciascun punto di vista non è che uno dei tanti possibili, che va considerato un punto d’arrivo solo fino a quando non ne maturerà un altro, e messo a confronto con quello degli altri, validato, rielaborato, arricchito.

E’ difficile sopportare le incertezze, lo sappiamo bene ed infatti per es. cerchiamo di essere certi della relazione con l’altro controllandolo, avendo un rapporto di potere. Quando invece la relazione con l’altro richiede la giusta distanza, la delicatezza, la stessa cura che si dedica all’apprendimento di uno strumento musicale. Ebbene, la ricerca di certezze è segno di paura più che di forza. Un’altra parola che è stata ripetuta frequentemente in questo periodo è “comunità” , da quella scientifica a quella più vicina a noi, quella dei condomini, del quartiere o quella virtuale . Ecco la comunità scientifica ci ha mostrato cosa significhi la parola “comunità”: ha messo in un unico portale dati e studi di ricercatori di ogni parte del mondo. Primo passo per realizzare la sinergia e lo scambio, per dare impulso agli studi e accelerare i risultati. Quindi altra lezione per la vita che riparte: curare lo scambio tra le persone, la messa in comune dei loro saperi, perché le loro diversità diventino arricchenti e stimolino l’emulazione: il vero antidoto alla competizione che avvelena e rende asfittici i nostri rapporti.

E’ vero, ora la nostra vita sembra aggrovigliata ai decreti ministeriali. Eppure quante volte siamo stati sollecitati a vivere nel presente e di non essere schiavi della pianificazione? Ma lo sappiamo fare? L’attesa ci attrae o ci angoscia? Attesa e lentezza sono due sfide che rischiano di logorarci? Forse. Noi che senza accorgerci abbiamo supposto di determinare tutto della nostra vita. Che non sempre abbiamo avuto chiaro il concetto di limite, che lezione possiamo apprendere dalla macchina statale che si inceppa? Dalle incertezze nel procedere? Il virus ha spappolato ogni fiducia assoluta sulla competenza, sta vincendo su di essa, reclama competenze nuove, pensieri altri, nuovi modi di vedere e di capire. Spinge a ritornare a dare valore a due qualità che sembrano perse: la pazienza e l’attesa. Certo bisogna cercare di sfuggire ad una concezione nostalgica della lentezza, quella di un passato in cui mancavano i mezzi per velocizzare dei processi. Non c’è un unico tempo, ma tanti tempi per tutto ciò che fa parte della nostra vita. Un ritmo naturale. Non si tratta di demonizzare la velocità, che fa parte della nostra natura, ma di scomporla in tante dimensioni in cui il suo contrario, la lentezza ha lo stesso valore, la stessa importanza. Non abbiamo una prospettiva? Tante cose non possiamo programmarle né farle, è vero!

Altre sì e possiamo concentrarci su queste. L’importante è non cedere a vittimismi, lamentazioni e recriminazioni. Che fare allora? Io invito a guardarci attorno e scoprire quanta bellezza abbiamo nei luoghi vicini. E contemplarla magari con occhi più colti e rispettosi, con uno sguardo che si posa e non sfugge e fugge. Armiamoci di coraggio. Certo, oggi siamo al centro di tanti fuochi incrociati. L’imprevisto, ha messo a soqquadro la nostra vita. L’organizzazione delle giornate, le abitudini, le relazioni. Ma soprattutto i nostri vissuti e le nostre convinzioni. Ha creato una ferita profonda. E’ saltata la sicurezza nella tecnologia, nella competenza che tiene sotto controllo, la libertà di autodeterminazione dei propri spostamenti e degli incontri, i privilegi legati ai ruoli sociali, economici, politici e religiosi.

Siamo consapevoli che il futuro che ci si prospetta non è tracciato. Va accettato che l’attuale catastrofe abbia causato un trauma, pur vissuto con equilibrio, altrimenti significherebbe qualcuno è stato così difeso o superficiale da non farsi scalfire. In questo caso usciremo da questa fatica, occasione persa e inutile, più banali, vuoti ed insignificanti. Uscirne cambiati, magari in meglio, ricomposti, però non è una conseguenza automatica, dipende da un forte impegno individuale, da una decisione ad aprire un dialogo serrato, serio e costruttivo con se stessi. Certo questo processo può essere favorito e supportato, accompagnato. Da soli può essere possibile ma può risultare difficile se non si dispone già di una pregressa abitudine e coltivazione di sé, di allenamento, di buon equilibrio psico-affettivo e di autostima personale.

Noi vorremmo che il Governo, le organizzazioni religiose e spirituali non trascurassero il dovuto sostegno e la promozione di tale lavoro su cui si fonda la vera uscita dall’emergenza, che riguarda, come si dice nel gergo economico, il ben-essere del capitale umano, delle human resources . Intanto una certezza e un invito: bisogna ritornare a vivere pienamente le passioni, gli obiettivi, gli ideali, le motivazioni, i progetti, le aspirazioni, dal profondo del nostro essere, della nostra natura. Ci prepariamo così a quel che davvero desideriamo e vogliamo realizzare. E forse, in qualche modo lo attiriamo e lo favoriamo.

Maria Martello - Formatrice alla Mediazione per la risoluzione dei conflitti secondo il modello
umanistico-filosofico da lei ideato, ha insegnato Psicologia dei rapporti interpersonali presso
l’Università Cà Foscari, già Giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni e la Corte
d’Appello di Milano, autrice tra gli altri del volume “Sanare i conflitti “, Guerini e Associati
Editore, “La formazione del mediatore” ed. Utet, “Mediatore di successo” ed. Giuffrè, “L’arte del
mediatore dei conflitti”, Giuffrè, “ Educare con SENSO senza disSENSO” Franco Angeli.

 http://www.istitutodeva.ithttp://www.istitutodeva.it

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