Cronache

Camici antiCovid made in Italy? Coi soldi dello Stato schiavizzando immigrati

di Antonio Amorosi

Dentro l’inchiesta delle forniture di Prato. La Procura: scattati 10 arresti. La Polizia svela: la criminalità organizzata cinese si collega a quella italiana

Il made in Italy sanitario del Covid? Fatto illecitamente con lo sfruttamento dei lavoratori immigrati

Pakistani, bengalesi, cinesi, senegalesi, centrafricani, molti dei quali irregolari sul territorio nazionale, venivano sfruttati anche per 12 ore al giorno. L’obiettivo era realizzare milioni di dispositivi sanitari “made in Italy” oggetto di appalti pubblici dello Stato.

E’ il sistema Prato e company dove, come spiega la Squadra Mobile della Questura “la provincia” è diventata un “hub” strategico, “centro nevralgico, a livello nazionale, della produzione tessile e manifatturiera, sia legale che ‘illecita’. Si pratica con “la sistemica violazione dei diritti dei lavoratori, delle norme in materia di sicurezza e previdenza”, il che “comporta un abbattimento dei costi di produzione che attira sistemi criminali di portata nazionale”.

“La criminalità straniera di origine cinese”, scrivono ancora gli inquirenti ha “superato la tradizionale ‘endogamia’, e avviato proficue collaborazioni con il crimine nostrano”. Ma chi indagava non è stato le mani in mano perché l’indagine era già partita nell’inverno del 2020, mettendo sotto la lente la fornitura di circa 2 milioni di camici protettivi monouso ad un prezzo unitario di 6.10 in favore della ASL Roma 2.

Ma abbiamo anche una commessa prevista dal Commissario Straordinario per l'emergenza Covid-19, con la quale è stata affidata al Consorzio romano GAP il 12.11.2020, “la fornitura di 5.500.000 di tute protettive monouso sterilizzate al prezzo unitario di 8.10 e, per un totale di euro 44.500.000,00 nonché 5.500.000 di tute protettive monouso non sterilizzate al prezzo unitario di 7.10 euro per un totale 39.050.000,00 euro”. Parliamo, prevalentemente, di imprenditori italiani con stranieri, "terzisti", le cui ditte hanno concretamente prodotto parte dei camici e tute destinati alle pubbliche forniture. In sostanza il lavoro sporco lo facevano i cinesi che avevano ricevuto in subappalto una maxi commessa vinta da un consorzio.

Tra gli indagati ci sono proprio i vertici del "Consorzio GAP", azienda romana vincitrice degli appalti pubblici. Per le indagini “avrebbero compiuto gravi violazioni della normativa sugli appalti pubblici, sostanziatesi in prevalenza nella violazione del divieto di subappalto, nelle frodi sulle forniture di milioni di tute e camici sanitari fabbricati in prevalenza aziende ubicate nella Provincia di Prato, celate alla pubblica committenza”. Nel medesimo contesto investigativo, nelle province di Reggio-Emilia, Lecco, Pisa, Campobasso, Vicenza, Bologna, Arezzo, Torino, Brescia, Lecce, Pavia, Modena e Isernia, sono stati notificati ulteriori informazioni di garanzia nei confronti di altrettanti indagati, non sottoposti ad arresto ma solo a perquisizione personale e domiciliare, estesa anche ai luoghi di lavoro (aziende tessili), e/o sequestro preventivo di beni.

10 gli arresti, di cui 4 custodie cautelare in carcere, 6 arresti domiciliari, 2 divieti di esercitare uffici direttivi in persone giuridiche e/o imprese e 4 ulteriori obblighi/divieti di dimora, nei confronti di 16 soggetti, raggiunti da gravi indizi di colpevolezza. I reati più gravi ipotizzati sono violazione del divieto di subappalto in contratti con la pubblica amministrazione, frode nelle forniture pubbliche, truffa aggravata ai danni dello Stato, sfruttamento del lavoro e impiego di manodopera clandestina, indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, sottrazione di cose sottoposte a sequestro.

Il massimo del profitto si fa così, con il costo basso del lavoro illegale, permettendo così grandi guadagni al consorzio romano ed anche alle imprese "consorziate", che hanno potuto lucrare sui soldi pubblici. Il gioco era semplice approfittando dei lavoratori privi di qualsiasi tutela legale nell'ambito del rapporto di lavoro. Ma tutto è partito da una sigla sindacale che ha proprio denunciato le condizioni di sfruttamento imposte in una ditta tessile cinesi ai danni di un lavoratore senegalese.