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Sanità pubblica nelle mani di precari e coop: il caso "assistenza domiciliare"

Di Redazione Cronache

Doveva essere uno dei principali pilastri della medicina territoriale, per alleviare il peso su Ospedali e Ps. Ma è in mano alle coop e i soldi sono pochi

Sanità pubblica nelle mani di precari e cooperative: il caso dell'"assistenza domiciliare" è emblematico. I dati

Non c'è pace per la sanità pubblica: medici, infermieri continuano ad essere vessati da tagli e privatizzazioni che contribuiscono a una migrazione significativa del nostro personale all'estero.
Ma non solo: a fare le spese della gestione poco oculata dei fondi destinati alla cura dellla salute delle persone ci sono anche gli "assistenti domiciliari". Un lavoro importante, se si pensa che gli operatori entrano nelle case dei più fragili, si accertano delle loro condizioni fisiche e psichiche e offrono le cure minime per restare in salute. Il loro sforzo? Vale 8,8 euro lordi l’ora.

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In teoria l’Adi, cioè l’Assistenza Domiciliare Integrata, dovrebbe essere fra i principali assi nella manica del Pnrr, il Piano di Ripresa e Resilienza, finanziato dall’Europa con 20 miliardi di euro solo per la Sanità. Come riporta l'Espresso, per ridurre il carico di lavoro che grava sugli ospedali, presi d’assalto da malati cronici, anziani e persone con malanni più o meno gravi in cerca di un medico di base (che non si trova più) e costrette a intasare il Pronto Soccorso (al collasso), si è pensato di potenziare la medicina territoriale con 1.300 case della comunità, 600 centrali operative territoriali, 400 ospedali di comunità. Peccato che ancora nessuno si sia preoccupato di racimolare il denaro per assumere medici, infermieri, fisioterapisti e assistenti sanitari che in quelle strutture nuove di zecca dovranno lavorare. L’attuale governo non solo ha tagliato i presìdi da realizzare – meno 414 Case di Comunità, meno 96 Ospedali di Comunità, meno 76 Centrali Operative – ma ha destinato briciole al personale necessario: 250 milioni per il 2024, 350 per gli anni a seguire. Troppo poco se si considera che servirebbero 272 mila infermieri (stima il Crea, Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità dell’Università Tor Vergata) per stare al passo con le richieste di cure sanitarie del Paese. Detto altrimenti la spesa per il personale sanitario, che attualmente si attesta a 40,3 miliardi, dovrebbe aumentare di un quinto: 8 miliardi. 

Nonostante i proclami di Giorgia Meloni che, a detta sua, deve risolvere i disastri lasciati da chi l’ha preceduta, e nonostante il ministro della Salute, Orazio Schillaci, abbia assicurato che nel 2024 sarà finalmente levato l’odioso tetto di spesa al personale, che in sostanza dal 2004 non consente nuove assunzioni, il Paese reale va in un’altra direzione: "Sono assunto da una cooperativa. Ogni tre anni l’Asl territoriale indice un nuovo bando e quindi, ogni tre anni, cambio datore di lavoro. Non sempre va tutto liscio" racconta un assistente domiciliare a L’Espresso e continua: "Qualche volta vincono le finte cooperative, che spariscono con Tfr e contributi. E a ogni cambio appalto addio scatti d’anzianità". Un gioco dell’oca al ribasso, perché anche la coperta delle prestazioni da eseguire diventa sempre più corta: "Le ore per l’assistenza domiciliare si riducono. Non perché ci sia meno bisogno di noi, ma perché ci sono meno soldi". Il rischio per gli assistenti domiciliari è di non avere abbastanza assistiti per arrivare a uno stipendio dignitoso. L’alternativa è tentare un concorso pubblico per entrare a pieno titolo nel Servizio Sanitario Nazionale, anche se non c’è alcuna corsia preferenziale per chi quel lavoro l’ha svolto per 10 o 20 anni. Ad esempio, la Lombardia e la Toscana hanno deciso di farla finita con gli appalti e assumere direttamente il personale. A dicembre oltre 400 operatori sanitari precari della Toscana hanno protestato perché la Regione ha sì deciso di assumere 179 persone, ma pescando da una graduatoria attiva. Risultato: saltano gli appalti alle cooperative. E il personale precario resta senza lavoro. Insomma, la beffa, oltre al danno.

Eppure la sanità pubblica ha sempre più bisogno dei precari. In base alle elaborazioni del dipartimento Funzione pubblica della Cgil sui nuovi dati statistici del ministero della Salute, nel Servizio Sanitario Nazionale lavorano 62 mila precari, cresciuti dell’80,7 per cento in dieci anni (erano 34 mila nel 2013). «È vero che la grande massa dei lavoratori della Sanità è assunta a tempo indeterminato (670 mila). Ma questa certezza viene erosa di anno in anno, come dimostra il costante aumento del ricorso al lavoro precario, alle cooperative, alle agenzie interinali, ai gettonisti e ai lavoratori a termine, indispensabili per far fronte al decennale blocco del turnover del personale», commenta Michele Vannini, segretario Fp Cgil, che nonostante i proclami del governo, non vede alcuna luce infondo al tunnel. Anzi: "Il governo Meloni non ha sbloccato il tetto di spesa per le nuove assunzioni. Giorgia Meloni e il ministro Schillaci fanno un sacco di annunci a cui corrispondono poche iniziative concrete e tutte nel solco di consolidare la situazione attuale, ovvero favori a pioggia alla sanità privata".

A proposito di proclami, nell’ultima manovra finanziaria il governo ha annunciato, con soddisfazione, di avere stanziato oltre due miliardi per aumentare il salario dei medici, peccato che quei soldi fossero relativi al rinnovo del contratto risalente al 2019-2021, quindi scaduto da tre anni. E sempre Schillaci ha messo più soldi per finanziare le prestazioni aggiuntive utili ad abbattere le liste d’attesa: "Stiamo dicendo al personale già all’osso (che spesso non può permettersi la normale turnazione perché i colleghi fuggono verso la sanità privata) che, una volta terminato il proprio turno da 36 ore settimanali, può benissimo guadagnare un extra facendo più ore di straordinario", spiega Vannini della Cgil. A profittare di tutta questa situazione è la sanità privata che può scegliere su quali prestazioni puntare e con più risorse a propria disposizione. Anche grazie a Giorgia Meloni che, nella legge di Bilancio, nel lasciare inalterati i tetti di spesa sul personale, ha previsto un incremento dei tetti di budget per i privati convenzionati di quasi un miliardo, cui vanno aggiunti 527 milioni per abbattere le liste d’attesa.

Sul fronte delle visite ambulatoriali, solo il 23 per cento viene erogato in regime di Ssn, per gli accertamenti diagnostici la prestazione è pubblica nel 30 per cento dei casi. E il peggio deve ancora venire: "Fino a dieci anni fa, quando il Servizio Sanitario Nazionale era finanziato almeno al 7 per cento del Pil, era possibile effettuare dei tagli sulle attività senza inficiare il servizio al paziente. Ora siamo al 6 per cento, minimo storico del finanziamento del Ssn: proprio le Regioni più virtuose, ovvero quelle abituate a offrire servizi di qualità, si vedono costrette a tagliare la carne viva dei servizi. Non ci sono più inefficienze da sfoltire, ci sono solo cure da sacrificare. Su tutte, l’assistenza domiciliare, che sta pagando il prezzo più caro", spiega Francesco Longo del Cergas Bocconi, che fa notare come, paradossalmente, la Regione meno problematica per il ministero dell’Economia e delle Finanze, è in questo momento la Calabria, dove si spende poco, a fronte di cure al lumicino.