Cronache
"Silvia Romano, bentornata. Ma dei 4 milioni ai terroristi non si va fieri"
"Chi c’è dietro alle varie Ong? Perché inviare ragazze così giovani ben conoscendo certe realtà? Che fine faranno questi milioni di euro?"
Liberata, dopo 18 lunghi mesi di sequestro in Africa, dove era stata rapita in un villaggio del Kenya. Silvia Romano è atterrata a Ciampino, vestita con jilbab, un abito tradizionale indossato dalle donne in Kenya e Somalia, e capo coperto, guanti sulle mani e mascherina sul volto che abbassa per salutare.
Silvia, 25 anni, è animata da spirito umanitario, dotata probabilmente (anzi, sicuramente) di grande sensibilità ai temi di cui l’Africa è ricca: la povertà. Un ossimoro. E nel cuore sente la sofferenza nel vedere e sapere di bambini bisognosi di affetto e istruzione. Di tutele maggiori. E si imbarca, grazie ad una organizzazione, “Milele”, che si occupa di volontariato, destinazione Africa. Non un Africa a caso: ma un villaggio sperduto keniota. Una prima missione, e poi la partenza per la seconda. L’amica del cuore aveva cercato di dissuaderla nel partire per la seconda volta, ponendole davanti i pericoli di una missione che la stessa aveva esternato “velatamente” essere così particolare e pericolosa. Ma che lei sentiva responsabilità verso quel villaggio di bambini per “qualcosa” che stava accadendo. Cioè, sentiva il pericolo, ma comunque decide di partire. Mi chiedo anche dove sia la famiglia, che lascia andare e non riesce a trattenere... L’istinto di salvatrice dei popoli ha la meglio sulla ragione. Conosco bene il Kenya, ed il nord Africa. Ne conosco usi, stili, consumi e cultura. Ne ho respirato l’aria, la polvere, le ingiustizie, le crudeltà, gli inganni, la bellezza, i colori, i bambini con i loro sorrisi. È molto facile venir affascinati da tutto questo. È molto facile cadere nella trappola della bontà a prescindere, ben lontana dalle reali possibilità che umanamente illudono di esserci, per aiutare, per fare la differenza. Noi, occidentali. Quelli bravi, quelli che sono per la giustizia sociale, per l’uguaglianza, per l’educazione, la formazione come arma contro i soprusi e le violenze. Certo che sì. E allora, ad un certo punto si pensa che sia giusto arricciarsi le maniche e partire, donandosi a loro con aiuti ed una vicinanza, e per noi, un riscatto sulla vita. Magari, una vita (forse) vuota, senza molte soddisfazioni né obbiettivi, senza una chiara visione di futuro. Senza molto riflettere su ciò che può ( effettivamente è potuto) accadere. Non da oggi, chi si occupa di aiuti umanitari, di cooperazione, mette a rischio la propria vita. È chiaro che, in un paese come questo, dove esiste un governo, esso stesso a commettere soprusi e violenze ai suoi stessi abitanti, chi arriva per sostenere progetti di erudizione e crescita sociale, viene mal visto. Molte le esperienze negative, di donne e uomini, che hanno perso denari (tanti) in investimenti atti a progettare attività che potessero alimentare la comunità di valori e mezzi, e tempo proprio privato di famiglie lasciate a casa. Peggio ancora, le tante donne (magari non più giovani) che si innamorano del bel “nero” scultoreo beach boy, così da perdere ogni suo avere, perché ingannate, e gli uomini che (diversamente) usano le vacanze a sfondo sessuale, per sfruttare le ragazze a pagamento. Insomma, questa è l’Africa. Non tutta, ovviamente. Il sud è ben diverso, è ricco e completamente ribaltato nel tessuto sociale. Il Kenya è quel luogo dove invii soldi per un orfanotrofio, e finiscono nelle tasche sbagliate. Dove un container faticosamente riempito dall’Italia, finisce per marcire con tutto ciò che contiene perché per sdoganarlo è la polizia locale stessa che chiede fior di dollari. Senza pensare, o meglio, incuranti del fatto che le derrate alimentari scadranno e non saranno più utili, e la merce sarà avariata a breve. Avariata e marcia, come da quelle parti, perché così è. Così come esistono molte persone che, in qualche modo, in kenya portano avanti attività e progetti che funzionano, che sono diventati anche punto di riferimento per turisti, ed hanno imparato a viverci, stando alle regole. Il Kenya è quel tramonto rosso e dirompente che ti fa piangere, mentre ti alzi in volo per tornare a casa, è quel nugolo di bambini che si aggrappa alla tua maglietta chiedendoti soldi, penne e caramelle. È quella donna che ti mette in braccio sua figlia e ti dice ”portala con te, così potrà avere un futuro diverso. Più bello, più sicuro” e tu, conti fino a tre, mentre cerchi di ricacciare indietro le lacrime, assieme all’idea malsana di raccogliere la sua richiesta, inghiottendola esattamente come la saliva, che rimane in gola e non va giù. È quell’uomo a cui dai soldi per fare la spesa, e poi vieni a sapere che li ha spesi tutti per bere e fumare erba. Ed a casa sono digiuni da giorni. È quella ragazza che si avvicina al tuo uomo, facendogli l’occhiolino, invitandolo a recarsi in stanza con lei. E tu rimani lì, come una scema, pensando come sia possibile questo agire così sfrontato. Il kenya però è anche città. È Nairobi, con uffici e donne in tailleur, che occupano ruoli di prestigio. Avvocati, medici, altro.
È savana. Dove a comandare sono gli animali, non gli umani. È il barrito degli elefanti, con i piccoli al seguito che incroci nel Bush, il ruggito del leone fuori la tenda del lodge dove dormi, è il giaguaro con la preda sanguinante in bocca, è l’ippopotamo che appena emerge dal fiume nero, è il Coccodrillo immobile, pronto a scattare.
È questo il Kenya. Ed è solo una parte di quel continente così vasto che si estende da nord a sud, rappresentato da etnie tutte diverse. C’è l’Africa della costa est, ovest, diverse e lontane tra loro, da nord a sud, contrarie ed opposte. In tutto ciò, c’è una storia lontana. Di colonialismo inglese, di sfruttamento ed anche di investimenti importanti per i quali molti hanno potuto cambiare la propria vita. Non esistono fabbriche industrie importanti in Kenya, a Zanzibar, Tanzania, in Congo, in Etiopia, in Rwanda, ecc... esistono piccole realtà di artigianato a scopo turistico, e mano d’opera per hotel e villaggi, quando vengono costruiti, e dopo, per la gestione ed i servizi. Prostituzione e corruzione sono di casa. Così come gli atti vandalici contro i possidenti, ritenuti i padroni. Difficile tutto. È cultura diversa, lontana mille miglia da noi. Quando si parla di Africa il mio cuore, ancora oggi, si gonfia e piange. Ma nel tempo si impara a lasciar da parte l’emozione, per far spazio alla ragione. Questo unicamente perché non si può pensare, o illuderci di poter cambiare le cose con la sola nostra passione per il nostro prossimo. Per aiutare davvero un paese come quello, serve ben altro che dei volenterosi e bravi ragazzi che partono zaino in spalla, pensando di salvare vite future di bambini. Servono politiche di cooperazione internazionale serie, servono stati che fanno sorveglianza dei diritti umani, lì violati ogni istante, servono misure economiche importanti, servono investimenti, lavoro e sostegno vero e continuo.
Rapita 18 mesi fa dall'orfanotrofio di Chakama, in Kenya, da un banda di otto criminali, è stata poi venduta ai terroristi somali di Al Shabaab e portata in Somalia, dove è stata liberata. Si è dichiarata votata all’Islam.
A me ciò non interessa, forse come dicono fonti dell'intelligence: "più per condizione psicologica durante il rapimento", ma lei stessa smentisce dicendo che nessuno l’ha costretta.
Io sono felicissima che una “nostra” ragazza torni a casa. Sana e salva. Dico, però, che forse non tutti conoscono l’Africa, ma chi si imbarca in questa esperienza, affidandosi ad organizzazioni internazionali, e parte, sa bene a cosa va incontro, e chi vive là, parlo di guerriglieri, diretti da capi di varie etnie e religioni, sa bene cosa può apportare loro il prendere in ostaggio i nostro volontari: si chiama riscatto. Che giustamente va pagato, non è questo in discussione. In discussione ci sono 4 milioni di euro ai terroristi islamici, e non sono cosa di cui essere molto fieri. No. Mi spiace. E si inizi a pensare, magari, che invece di agevolare le partenze di questi nostri ragazzi, mandandoli incontro a rischi, forse sarebbe migliore l’agire in altro modo. Lei è a casa, molti altri volontari sono ancora prigionieri, e altri ne seguiranno perché questo è un loro sistema di entrate garantite. Chi c’è dietro alle varie ONG? Perché inviare ragazze così giovani ben conoscendo certe realtà? Che fine faranno questi (tanti!) milioni di euro? Chi finanzieranno? E per cosa?
Ben tornata Silvia. Lo dico dal cuore. E da mamma. Bentornata anche se hai cambiato il tuo Dio. Oggi festeggiamo, in silenzio ma con le guance rosse il tuo ritorno.