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Cronache
Terremoto, ospedale di Amatrice obitorio a cielo aperto. Racconti da Amatrice

L’ospedale di Amatrice è diventato obitorio a cielo aperto tra urla, detriti e fuga

Il racconto dei medici del Grifoni e dei pazienti. Una superstite: richiamata al lavoro, sono miracolata

La facciata del vecchio convento riconvertito nell’ingresso dell’ospedale Grifoni di Amatrice appare violentata e deformata, mentre gli intonaci dell’ala nuova sono sparsi ovunque, disintegrati dalla furia assassina del terremoto che lo ha investito nel cuore della notte. 

«Il primo istinto è stato quello di scappare», confessa al quotidiano La Stampa Alessandro Corradetti, tecnico radiologo di turno l’altra notte. Ma poi, una volta fuori, il pensiero è andato subito a chi era rimasto dentro, intrappolato al buio tra i solai traballanti e un’incessante pioggia di calcinacci. «Da una delle finestre dell’ultimo piano, un medico chiedeva aiuto, non riusciva ad uscire dalla sua stanza – racconta con il volto ancora provato - Allora, insieme alla guardia giurata in servizio, sono rientrato: abbiamo raggiunto la porta, bloccata da un armadietto caduto durante la scossa, e lo abbiamo liberato». Poi, uno ad uno, hanno portato fuori i degenti. «Aiutandoci con delle sedie o dei materassi per trasportarli al sicuro nel parcheggio esterno». Attimi di paura,e il trauma del passato: «Nel 2009, la notte del violento terremoto che ha distrutto L’Aquila, mi trovavo lì – ricorda Alessandro – Sette anni dopo ho rivissuto lo stesso sgomento e le stesse terribili sensazioni». 

Il giorno ha riportato la luce sulle macerie che restano dopo la nottata passata a scavare con a mani nude tra le macerie: ad Amatrice non c’è forse più una sola persona che non abbia perso almeno un familiare o un amico. All’estremità ovest di Corso Umberto I, un mucchio di macerie nasconde i corpi dei tanti che si spera di trovare ancora vivi. Ma da mezzogiorno e mezzo in poi i soccorritori hanno iniziato ad estrarre solo corpi senza vita. Avvolti tra teli e lenzuola e disposti, adagio, in due obitori allestiti a cielo aperto alle due estremità di quel che resta del Corso. Sul lato ovest è toccato al cortile dell’abitazione di Antonio Campesi accogliere le salme: «Era la mia casa del week-end, ma ora vederla così...», allarga le braccia. 

La signora Stefania Marchioni piange davanti ai resti di quella che, fino a qualche ora prima, era ancora la sua casa. «Sono una miracolata, sono una miracolata...», continua a ripetere. «Avrei dovuto essere là sotto anch’io – racconta – Invece, due giorni fa, inaspettatamente, mi hanno richiamata al lavoro, e sono rientrata a Roma insieme a mio marito». E in fondo Amatrice è anche un po’ Roma, soprattutto nei mesi estivi, quando la popolazione del comune sabino salta dagli appena tremila residenti agli oltre 30 mila vacanzieri, soprattutto della capitale, che qui hanno acquistato o, in molti casi, ereditato casa da nonni o genitori. Passano le ore. Ma è ogni minuto trascorso che porta via con sé un pezzo di speranza. Di ritrovare vivo qualcuno delle centinaia di dispersi scomparsi insieme ad Amatrice. «Nel 1979 ero in Irpinia quando tirò il terremoto, nel 2009 a L’Aquila e questa volta qui», ricorda Stefano Previtera, primario dell’ospedale Grifoni. «Forse dovrei farmi benedire», si lascia scappare una battuta carica di amarezza. 

A tarda sera c’è chi cerca ancora i propri cari da un obitorio all’altro. «Il mio nipotino non si trova. Lo avevano estratto vivo dalle macerie stamattina e portato via d’urgenza. Abbiamo chiamato tutti i possibili ospedali di destinazione ma non sappiamo che fine abbia fatto», si sfoga una ragazza con gli occhi rotti di pianto dopo un’intera giornata di vane ricerche. I mezzi pesanti dei soccorritori circumnavigano Amatrice da un capo all’altro. Il Corso, la via più breve, è interrotta da un muro di macerie. Mentre i cingoli degli scavatori grattano incessantemente sull’asfalto, sovrastati dai rotori degli elicotteri che decollano e atterrano senza sosta. Proprio a due passi dal parco dove i volontari hanno iniziato ad allestire le tendopoli. La prima notte, per molti lontano da casa, è già calata. La prima senza una madre o un padre, un figlio o un nipote. Oggi si ricomincerà a piangere e sperare.

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