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Cronache
Valditara: "La prova orale sarà una chiacchierata". Così la maturità diventa una barzelletta

Il racconto

Studente: “…E così i miei studi… beh, sarebbe onesto dire che molto non ho studiato. Ad esempio in latino, raramente ho avuto la sufficienza. Per fortuna le traduzioni in latino non si fanno più. Ma io trovavo difficili anche quelle dal latino”.

Professore: “E i Suoi genitori non l’aiutavano? A volte basta un piccolo suggerimento per rimettere sulla strada giusta un tentativo di traduzione…”.

Studente: “L’avevano studiato tutti e due, ma mi dissero che non se lo ricordavano. Poi per fortuna mi tranquillizzarono: se non ci riuscivo pazienza, non valeva la pena di tormentarsi inutilmente. Però, fui colpito da alcuni versi di una satira di Orazio, e di altri di una elegia di Tibullo. Tanto che li copiai sul mio diario, insieme alla loro traduzione trovata sul libro”.

Professore: “Ah bene, e che cosa La interessò in quei versi?”.

Studente: “Ora non ricordo bene. Mi pare l’immediatezza dei sentimenti espressi”.

Professore: “Vogliamo vedere sul Suo diario i versi di Orazio o Tibullo da Lei trascritti? Così potremmo subito capire cosa di quei versi Le piacque, e perché Le piacque”.

Studente: “Volentieri lo farei, ma non possiamo”.

Professore: “Come non possiamo?”.

Studente: “Perché sconfineremmo nella Letteratura Latina, che in quanto materia di insegnamento, non è un argomento di esame”.

Professore: “Ah certo, ha ragione. Stavo dimenticandomene. Beh allora, se non ha altro da aggiungere sul contributo del Latino alla Sua formazione e in prospettiva al Suo futuro, possiamo passare ad un’altra materia, pardon, argomento. Anzi, diciamo più correttamente, se Lei è d’accordo, possiamo riprendere la conversazione”.

Studente: “Ma certo”.

Professore: “Dunque, siamo al Liceo Carducci. Avrete fatto un bel po’ di Carducci…”.

Studente: “Sì in effetti: Non è che mi entusiasmasse”.

Professore: “Alcune delle sue poesie sono così famose che sono passate da una generazione alla successiva, almeno sinora, e ormai si può dire facciano parte della cultura popolare, se non della tradizione nazionale. Ai suoi genitori ne piaceva qualcuna?”.

Studente: “Sì, a mia mamma ‘Davanti a San Guido’, forse perché è anche lei di quelle parti”.

Professore: “Ah bene, ‘Davanti a San Guido’. E, come procediamo? Non le dispiacerà se Gliene recito qualche verso a memoria?”.

Studente: “No assolutamente: tanto io già da anni mi sono rifiutato di imparare alcunché a memoria, un’enorme fatica inutile. Faccia pure”.

Professore: “Non son piú, cipressetti, un birichino, E sassi in specie non ne tiro piú. E massime a le piante. Ecco: si potrebbe dire che molto della poesia sia contenuto o preannunciato in questi versi. Sarebbe d’accordo con questa affermazione?”.

Studente: “Temo Professore che se rispondessi a questa domanda collaborerei con Lei in una pericolosa incursione nella Letteratura Italiana, che in quanto materia di insegnamento, non è materia di esame. Sorvolare sulla poesia, aggirarsi attorno ad essa, o più precisamente, sul mio rapporto con la poesia, va bene. Parlarne trascendendola, va bene. Ma esporne il contenuto, o tentarne un’interpretazione, no”.

Professore: “Ha di nuovo ragione. Mi scusi. A Lei, quando un po’ più giovane, o magari anche ora, veniva da tirare i sassi agli alberi? E se anche no, perché molti ragazzi lo fanno? Questa è una circostanza generale. E la domanda su di essa non verte sulla poesia, né su alcuna altra materia di insegnamento. Se Lei volesse prenderla in considerazione, staremmo aggirandoci attorno ad essa, come Lei ha esattamente proposto. A questa domanda non esiste del resto neppure una risposta “giusta” codificata”.

Studente: “Sì, ma è una domanda a cui non ero preparato. Tutte le domande cui non si è preparati vanno escluse, non solo quelle che vertono sulle materie di insegnamento”.

Professore: “In effetti bisogna riconoscere che prepararsi a rispondere a domande che non vertono sulle materie di insegnamento può comportare delle difficoltà inattese. Ma qui non occorre essere preparati. Basta usare il proprio senso di osservazione, la propria comprensione globale del mondo e magari, perché no, della poesia; ricorrere alla propria, se vogliamo usare la parola spero non troppo intimidente che indica perché ci troviamo qui… maturità”.

Studente: “Può darsi. Ma cercare di rispondervi mi dà ansia, mi sento soffocare. Sto male! Mi gira la testa! Aiuto, ho le vertigini!”.

Professore: (molto preoccupato, dopo essere corso a spalancare i vetri delle due finestre ed aver porto allo Studente un bicchier d’acqua): “Come sta? Si sente meglio?”.

Studente: “No. L’esame deve consistere di una conversazione condotta in perfetta serenità. Sennò non è più un esame regolare. Le domande cui non si sa rispondere, tutte, appartengano per fortuna alle materie di studio, o no, danno ansia. E Lei ponendomi all’improvviso questa domanda così… impropria ha fatto mancare alla mia prova di maturità la necessaria serenità”.

Professore e Studente: escono dall’aula singhiozzando entrambi, e sorreggendosi l’un l’altro.

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