Culture

L'autobiografia di Achille Occhetto è un viaggio tra gli errori della sinistra

 

AchilleOcchetto

 

LA PRESENTAZIONE A ROMA

Martedì 1 ottobre, alle ore 17:30, ci sarà la prima presentazione del libro, alla Sala del Refettorio della Camera.

Intervengono:
Giuseppe Civati, Deputato del Partito Democratico
Enrico Mentana, Direttore del Tg La7
Nichi Vendola, Presidente Nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà
Modera il giornalista Marco Damilano

Un racconto autobiografico e uno spaccato di rilevanza storica del passaggio da un’esperienza personale tutta interna alla storia del comunismo al radicale superamento di alcuni suoi capisaldi teorici e pratici. La vicenda umana e politica di Achille Occhetto è irripetibile, proprio perché si snoda lungo un intero secolo segnato solo da svolte epocali, e allo stesso tempo si forma e cresce e si connota all’interno di un partito – il Pci – che per decenni ha avuto tra i suoi «inquilini naturali» i più vari rappresentanti di quelle svolte – marxisti, operaisti, cattolici, liberali, crociani, borghesi radicali, antifascisti – uniti dall’idea dell’esistenza possibile di un’alternativa di sinistra alla piccola Italia dei compromessi, dell’opportunismo e della corruzione. E la «svolta» di Occhetto, la celebre Bolognina, insieme al famoso ossimoro che dà il nome a questo libro, è l’ultimo atto di un secolo tragico, come tragiche sono le grandi storie segnate dalle grandi passioni, prima che l’insorgenza berlusconiana contaminasse con i suoi veleni una sinistra irretita dal mito del potere. Oggi, che degli ultimi vent’anni della storia politica italiana abbiamo una visione chiara – e del fallimento dei suoi miti subiamo ancora le conseguenze – la svolta della Bolognina non ci appare più nel ricordo nostalgico di un tentativo estremo e non riuscito, perché i sentimenti, le pulsioni e soprattutto gli obiettivi reali che l’hanno mossa aprono davanti ai nostri occhi una possibilità nuova per la sinistra e per il futuro dell’Italia.

L'AUTORE - ACHILLE OCCHETTO, deputato dal 1976, è stato segretario nazionale della Fgci, segretario generale del Pci, e dal febbraio 1991 al giugno 1994 fondatore e segretario nazionale del Partito democratico della sinistra. È stato co-fondatore e vicepresidente del Partito del socialismo europeo nel 1990, più volte eletto deputato nel parlamento italiano e in quello europeo e presidente della commissione Affari esteri della Camera (dal 1996 al 2001); inoltre è stato membro del consiglio d’Europa dal 2002 al 2006. Ha scritto: Intervista sul ’68 (Editori Riuniti), Per un nuovo movimento (Laterza), L’indimenticabile ’89 (Feltrinelli), Il sentimento e la ragione (Rizzoli), Governare il mondo (Editori Riuniti), Secondo me (Piemme).

SU AFFARITALIANI.IT LEGGI IL CAPITOLO "IL MALE OSCURO DELLA SINISTRA"
(per gentile concessione dell'editore)

Per capire in quali condizioni si arrivò all’appuntamento del ’94 occorre, tra gli altri fattori, tenere presente quel male oscuro che offuscò in molte occasioni non solo la vita del Pds ma quella complessiva del centro-sinistra, anche dopo le mie dimissioni. Purtroppo quel male profondo, che minò alla radice la nostra azione, è ampiamente documentato da Petruccioli e dall’atmosfera che si respirava nella stampa. Era passato appena un mese dalla Bolognina e già ci fu il primo colpo di freno interno al Comitato centrale. C’era chi era restio ad abbracciare il nuovo nome del partito, che poi era anche la ragione sociale del partito stesso, chi sosteneva, giustamente, che prima della nuova denominazione bisognasse definire i contenuti, ma anche chi riteneva, con evidenti intenzioni temporeggiatrici, necessario indire un primo congresso per decidere se mettere la questione all’ordine del giorno e, in caso positivo, a quel punto indire un secondo congresso che sarebbe entrato nel merito. Nella stessa maggioranza favorevole al cambiamento del nome incominciarono ad affiorare le prime posizioni dilatorie. In realtà, le enormi difficoltà incontrate nella formazione dello “spirito costituente” del Pds – che forse mi sono chiare solo adesso, dopo la rilettura del libro di Claudio – derivavano dall’incapacità di credere fino in fondo a un rinnovamento della sinistra che rendesse possibile un’alternativa alla crisi comunista. Anche molti di quelli che aderirono alla svolta forse lo fecero per la speranza di durare un altro po’, per sottrarsi all’idea che fosse tutto perduto, e sempre con l’atteggiamento di chi confronta il presente con il passato, e mai il presente con il futuro. Certo, da qui a subire quel vero e proprio sabotaggio che mi fu riservato fin dal giorno stabilito per la dichiarazione d’intenti del Pds, il 10 ottobre 1990, ce ne passa. La conferenza stampa per la presentazione del nuovo simbolo e di quella che sarebbe stata la “carta d’identità” del partito era stata preparata nello stile dei grandi eventi, avevamo chiamato i giornali a raccolta, avevamo atteso quel momento per mesi. La dichiarazione fu illustrata alla direzione tra i clamori della stampa. Gli stessi giornalisti erano elettrizzati, molti che pure ci avevano contrastato nel corso degli anni avevano le lacrime agli occhi per l’emozione. Io ero felice: dopo tanti contrasti interni potevamo finalmente decollare. La decisione era stata già presa democraticamente nel primo eccezionale Congresso di Bologna, un congresso teso, dominato per la prima volta da un dibattito drammatico ma elevato tra correnti diverse. Che lo stesso Craxi aveva seguito con entusiasmo, mandando bigliettini a tutti, che dicevano che avrebbe voluto un dibattito simile nel suo partito. Insomma il dolore del parto era alle nostre spalle; non restava che crescere la nuova creatura. Invece no. La contrarietà divenne parossistica tra gli oppositori della svolta, ma, cosa paradossale, si inasprì anche tra chi l’aveva sostenuta. Si rinunciò a presentare quanto stava avvenendo alla società italiana come un atto vitale, si disseppellirono subito, senza darsi nemmeno il tempo di brindare, i miasmi di morte. Ecco riapparire il male oscuro! Infatti il giorno successivo accadde l’inverosimile. Fui accusato da destra e da sinistra di spirito di scissione e di liquidazione culturale. Nacque un’aspra lotta intestina al partito che culminò in un vero e proprio accerchiamento della mia persona. I giornali furono durissimi, i tre giorni di festeggiamenti previsti per la nascita della mia creatura totalmente sviliti. Che le lacerazioni esistessero tra noi progressisti e i conservatori che non volevano cambiare il partito era cosa nota, ma il fatto che tra i miei si stesse tramando per ribaltare la mia candidatura come segretario del Pds mi era totalmente oscuro e, sempre dalle dichiarazioni, mai smentite, raccolte da Petruccioli, scopro quanto peso abbia avuto Massimo D’Alema nella conduzione delle trattative a mio sfavore. L’apice di questo vero e proprio colpo di mano si toccò nel momento di varare la mia elezione a segretario del partito, durante il Congresso di Rimini del 31 gennaio 1991, ventesimo e ultimo del Pci, che sancì ufficialmente la nascita del Pds. Da quei 264 voti a mio favore, dieci in meno di quelli che sarebbero serviti a raggiungere il quorum e ben ventuno in meno della mia maggioranza teorica, fu chiaro che la mia bocciatura aveva un significato politico enorme. Certo, il fattaccio fu determinato dalla circostanza che, per la prima volta nella storia di un partito, si era stabilito che il segretario doveva essere eletto, come il presidente della Repubblica, dalla maggioranza qualificata dei componenti dell’assemblea. Ci furono indubbiamente disfunzioni organizzative, delegati che lasciarono il Congresso pensando che sarei stato comunque eletto, e delegati che lo lasciarono sotto reconditi impulsi. Ma quando il padre di un progetto politico, il suo promotore e sostenitore massimo, non supera una votazione nel momento di essere riconosciuto come tale, non c’è errore tecnico che possa sminuire la portata dell’evento. Offeso, me ne andai. Restai a disposizione del partito, in attesa che la settimana successiva si riunisse nuovamente il Consiglio nazionale, ma dichiarai che per nulla al mondo mi sarei ricandidato di mia spontanea volontà. Non sarei stato io a incollare i cocci, sarebbero dovuti venire loro a cercarmi. Mai avrei dichiarato che il partito necessitava della mia presenza; avrebbe dovuto dirlo lui, il partito che mi aveva liquidato, che aveva bisogno di me. Questo clima, che indusse molti a chiedersi come io abbia fatto a resistere per quattro anni, forma la base di quella che si trasformerà in una vera e propria damnatio memoriae. Se, come abbiamo visto, gli attacchi iniziano nei momenti migliori e più felici della nostra iniziativa politica, si può ben comprendere che cosa sarebbe avvenuto in mancanza di un successo.

(continua in libreria...)