Culture

Giornata della memoria 2020, il ricordo di Etty Hillesum

Ricordiamo tra le vittime dell’Olocausto Etty Hillesum, deportata ad Auschwitz, il cui diario è una testimonianza del crescendo delle persecuzioni naziste

Etty Hillesum

Un racconto di Lucrezia Lerro

Tra i pochi fatti certi c’è che Etty Hillesum e i suoi familiari sono stati internati nel campo di transito di Westerbork.

Quella mattina si erano svegliati, avevano fatto colazione e Rebecca, tra una faccenda domestica e l’altra, non ce l’aveva fatta a non litigare con Levi. Avevano litigato per fare la pace, a modo loro, come sempre.

Il cielo era grigio. Etty e i suoi non avevano mai visto niente del genere, una sfumatura di colore non era mai stata in grado di farli rabbrividire. E invece stavolta le cose stavano andando in modo inatteso.

Era il loro ultimo istante di libertà, ogni cosa che guardavano dalla finestra della sala da pranzo, la magnolia, il nido di rondini, i tetti delle case, tutto lì intorno sarebbe stato libero per il resto della giornata, tranne loro.

E dopo poco erano in fila: Etty, sua madre, Levi, Mischa e Jaap. Il vagone merci straripava di gente, era un fiume in piena. Una volta caricati i “passeggeri”, il treno nazista li avrebbe condotti a Westerbork, campo di transito e di prigionia, e da lì in poi cosa sarebbe successo alla famiglia Hillesum?

Non occorreva molta immaginazione, visti i tempi e la ferocia che dilagava per il mondo. Ad Amsterdam la gente sapeva cosa accadeva ai prigionieri dei nazisti nel campo di fango, tra le baracche. L’unica protagonista laggiù era la morte. E poi, ci sarebbe stata Auschwitz, l’ultima tappa.

Gli Hillesum erano in treno. Nessuno di loro si era mai sentito prima di allora così solo, così sperduto.

Etty e i suoi familiari morirono con altri milioni di ebrei per mano dei nazisti. In un certo senso gli Hillesum morirono tutti lo stesso giorno, anche se nella realtà dei fatti le esecuzioni avvennero in date differenti. Il dolore precipitò nella loro vita nello stesso momento. Jaap, il fratello maggiore di Etty morì due anni dopo sul treno che liberava i prigionieri dal campo di Auschwitz.

La morte era arrivata e ne ebbero coscienza il 7 settembre del 1943, quando furono deportati da Westerbork ad Auschwitz. La morte li aveva attesi nella loro casa, al 6 di Gabriël Metsustraat. La morte si era arrampicata al terzo piano affacciandosi sulla Museumplein, sulla piazza più bella della città, sulla piazza avvolta di musica e mattoni. La morte, dal 1941 al 1943, si era insinuata tra le pagine del diario di Etty e vi si era trovata bene, incontrando Dio e i versi di Rilke. Le note di Beethoven, l’amore per Han e per Julius, l’amore dilazionato, poi assoluto. La morte lesse prima di chiunque altro le pagine del diario di Etty, e lei, nel fuoco della notte, di colpo la riconobbe. Si inginocchiò di fianco a lei e la presentò a Dio.

La morte non era poliglotta, parlava una sola lingua, parlava e straparlava in tedesco. Avrebbe ucciso chiunque in tedesco, soltanto in tedesco. La morte parlava la lingua degli assassini. Una lingua pericolosa e insopportabile per i non nazisti che si sarebbero abituati a ospitare lo straniero in casa, che si sarebbero abituati a morire a causa dell’“ospite” indesiderato. La morte avrebbe ucciso tutta la fatica di vivere trattenuta nello sguardo del padre di Etty, tutto il timore per la vita che sua madre non osava esternare. La morte abitava a Westerbork tra le capanne e il fango, nel sovraffollamento e le malattie.

“La morte è la sola che non muore,” ed Etty l’aveva compreso fin da bambina, quando il suo cagnolino si era accasciato di colpo sul pavimento della cucina ed era spirato. Lei accogliendolo tra le braccia si era resa conto che il cucciolo era morto e che l’unica certezza era quella fine non prevista ma reale. Etty vedeva l’inizio e la fine nelle cose, ed era la consapevolezza di quest’ultima che riusciva a farla sentire più forte delle persone che conosceva.

La morte l’aveva perseguitata fin da bambina, quando sveniva per via delle convulsioni che l’affliggevano. “Mamma non voglio morire, mamma aiutami.” Sua madre l’abbracciava forte e la teneva nel lettone tra lei e Levi. Lui per farla addormentare inventava storie magiche, di draghi, centauri e formiche. Eroi notturni e fantastici, esseri buoni e grandiosi. Etty si addormentava tra le braccia di Rebecca e scivolando nel sonno finiva per riconciliarsi con se stessa. Una mattina svegliandosi ricordò una frase che aveva detto Levi: “La formica è un centauro nel suo mondo di draghi.” La frase era misteriosa e bellissima. L’aveva colpita così tanto da non poterla dimenticare, e infatti non l’avrebbe scordata mai. Sarebbe stata il suo mantra.

Sul treno per Auschwitz lo recitò più volte, poi scrisse la sua ultima lettera: “Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: Il Signore è il mio alto ricetto. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora ad Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci.”